Continuano i negoziati per formare un Governo in Spagna senza che ci siano risultati sostanziali. E sono passati più di due mesi dalle elezioni. Ormai l’opinione pubblica, stanca delle manovre politiche, vive questo periodo come una tortura. Nessuno ha i voti necessari per formare un esecutivo, ma tutti dicono di voler provare a farlo senza che i veti incrociati dopo il 20 dicembre siano mutati. Salvo sorprese dell’ultimo minuto, il Psoe non avrà l’appoggio sufficiente a governare e anche per Rajoy i conti non tornano.

Sia che si torni a votare il 26 giugno, sia che, in modo imprevisto, si evitino le elezioni, la cosa migliore da fare è trarre una lezione da quanto sta accadendo, per non continuare a sbattere la testa contro il muro di una situazione che sembra senza via d’uscita. Quando cinque anni fa gli indignados sono andati a manifestare a Puerta del Sol si sono resi evidenti i limiti della democrazia spagnola. Lo segnala bene il giornalista Tom Burns Marañón in un suo recente libro. La Transizione è stata un successo, ma ha avuto i suoi limiti. Il lungo Governo di Felipe Gonzalez (1982-1996) ha creato un sistema a partito unico quando le nuove istituzioni erano troppo giovani. L’alternanza con un esecutivo di centrodestra è arrivata troppo tardi. Aznar non ha saputo, né potuto avviare il rinnovamento necessario per superare la partitocrazia e l’allontanamento della politica dalla vita sociale. L’inerzia ha fatto il resto. Tra le formazioni maggioritarie è diventato abitudine considerare l’altro come nemico più che come avversario. La dinamica dell’inimicizia si è traslata dal potere ai cittadini a ogni cambio di governo: 1996, 2004 e 2011.

Il quadro di una democrazia debole si completa con altri fattori: una società civile gracile; una mentalità statalista che è più dannosa per le persone che per l’amministrazione; una classe imprenditoriale troppo attenta al breve periodo e poco disposta a contribuire al bene comune; una classe intellettuale generalmente poco libera e creativa.

Non è certo desiderabile che il periodo cominciato in Spagna con il Natale si chiuda con un Governo populista. Ma ugualmente negativo sarebbe non imparare nulla dalla situazione che si è venuta a determinare con il voto. Podemos è un pericolo serio, continuerà a crescere e non è intelligente creare un cordone sanitario intorno al populismo. Il partito di Pablo Iglesisas evidenzia ciò che richiede un’attenzione urgente: la disuguaglianza crescente; il sistema dei partiti impoverito dalla corruzione e dall’allontanamento dai cittadini; la mancanza di sincerità e verità nella vita pubblica; un sistema educativo con scarsa capacità di sviluppare competenze critiche. La politica si fa religione e si identifica con le questioni di significato quando queste sono censurate.

La dialettica del nemico, attuata dai partiti maggioritari, non porta da nessuna parte. L’incapacità di formare un Governo quando Pp e Psoe hanno un’ampia maggioranza in Parlamento e quando c’è persino Ciudadanos disposto ad appoggiarli, certifica la fine di un ciclo. I sondaggi dicono che gli spagnoli non vogliono che Rajoy e Sanchez si presentino alle elezioni. Rappresentano il veto reciproco. I leader più valorizzati sono quelli che sottolineano la necessità di aggregare. Cambiare il sistema democratico e le sue relazioni con la società civile richiede, prima di tutto, molto dialogo. E negli ultimi due mesi si è reso evidente come ottenerlo. Destra e sinistra non possono pensare di avere ragione incolpandosi a vicenda. Mai come ora è necessario un cambiamento di leader e di metodo. E il cambiamento si può promuovere solamente con l’altro.