È uno spettacolo indecoroso quello che l’Europa sta dando davanti all’emergenza profughi: si va dagli accordi non mantenuti, come quelli per la redistribuzione rimasti lettera morta, al cambio di strategia brutale delle “mitiche” socialdemocrazie nordiche. E poi su tutto si insinua l’idea di rivedere o congelare gli accordi di Schengen, rialzando frontiere e in alcuni casi anche muri. È una specie di corsa all’indietro da parte di un continente senza identità, dove le preoccupazioni di carattere amministrativo hanno svuotato qualsiasi velleità di idea politica. E tutto questo panico è causato dall’arrivo di un numero di profughi che corrispondono allo 0,2 per cento della popolazione europea… 

Eppure esistono strade percorribili per dare risposte ad un’emergenza umana come quella a cui ci troviamo di fronte. E in questo l’Italia da tempo sta dando dimostrazione di civiltà e di capacità di iniziativa a tutto il resto del continente. L’ultima di queste iniziativa è stata l’apertura di un corridoio umanitario che, proprio due giorni fa, ha permesso ad una famiglia siriana con una bambina che aveva bisogno urgente di cure chemioterapiche di arrivare in Europa. La famiglia Al Hourani è la prima a percorrere questo “varco” che è stato aperto grazie all’iniziativa della Comunità di Sant’Egidio insieme alla Tavola Valdese e alla federazione delle chiese evangeliche in Italia. Il corridoio umanitario è un accordo firmato con il ministero degli Esteri e quello dell’Interno e consentirà ad oltre mille profughi attualmente in Marocco, Libano ed Etiopia di arrivare nel nostro Paese con visti rilasciati per “motivi umanitari”: si tratta di persone in condizioni di “vulnerabilità” (anziani, disabili, bambini con patologie…). Particolare importante: il costo dell’operazione è tutta a carico delle associazioni che l’hanno promossa, che ricorreranno anche ai fondi dell’8 per mille (la Tavola valdese), senza nessun onere per lo Stato. 

Si tratta di una buona pratica semplice, organizzata dal basso, con una base giuridica solida: l’articolo del Regolamento del 13 luglio 2009 che istituisce il Codice comunitario dei visti, e prevede la possibilità di concedere visti con validità territoriale limitata (in questo caso l’Italia), “per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali”. «Il corridoio umanitario», come hanno spiegato i promotori, «è uno strumento sicuro perché le persone sono identificate prima ancora di partire, quindi c’è una garanzia su chi giunge in Italia e c’è anche chiarezza sui tempi e sulle modalità di accoglienza ed integrazione». 

Oltretutto un accordo come questo potrebbe permettere di reintrodurre nella legislazione italiana il sistema della “sponsorship”: la possibilità di chiamata da parte di un garante (che può essere un’associazione ma anche un singolo privato) disponibile ad assicurare al migrante alloggio e sostentamento e in prospettiva anche il ricongiungimento famigliare.

Per mettere in piedi il corridoio umanitario le organizzazioni hanno fatto quello che l’Europa nella sua inettitudine non è stata capace di fare: aprire degli uffici per ora in Marocco e Libano dove i casi delle persone in condizioni di “vulnerabilità” vengono esaminati e verificati, per poi procedere attraverso il corridoio umanitario.

Cosa insegna questa vicenda? Innanzitutto che si è sviluppata una cultura dell’accoglienza che non si limita alle parole, ma che sa tradurre la propria visione in fatti e in prassi concrete e molto efficaci. In secondo luogo che l’Italia, da questo punto di vista, ha saputo proporre molti modelli, a partire dalle esperienze per i soccorsi in mare dove molte associazioni, come Medici senza Frontiere o Fondazione Rava, hanno giocato un ruolo importante. Ma anche su fronte dell’accoglienza diffusa resa possibile in particolare grazie all’iniziativa della chiesa e delle parrocchie, il nostro Paese ha saputo dare molte risposte “dal basso” (ben documentate sul sito www.vita.it). Sono tutte storie ed esperienze possibili, che indicano cosa potrebbe e dovrebbe essere l’Europa.