«Voi sapete tutto. Ma a che vi serve, se avete sempre gli occhiali sul naso e l’autunno nell’anima?…».
Quante volte mi sono ripetuto in questi ultimi anni la domanda di Isaak Babel’ che avete appena letto.
Babel’ aveva un desiderio di gioia e di felicità, se possibile, ancora più grande della tragedia che lo portò via tra l’una e le due di notte del 27 gennaio 1940, quando venne ucciso da uno dei sicari dell’NKVD, il capitano Vasilij Michajlovic Blochin, che una settimana dopo, il 2 febbraio, avrebbe ucciso il grande regista Mejerchol’d e qualche settimana ancora più tardi, tra il marzo e l’aprile, diventato maggiore, avrebbe guidato l’esecuzione di oltre seimila prigionieri polacchi in uno degli atti che oggi noi raggruppiamo sotto il nome di massacro di Katyn’ (cosa che gli valse qualche mese dopo ancora l’ordine della «Bandiera rossa»).
Quante cose sappiamo! Se non tutto, sappiamo molto della morte di Babel’, delle leggi che guidano o dovrebbero guidare la società, del modo in cui ci si deve comportare tra persone civili, ma a che ci serve? Lasciamo Babel’ e scendiamo nelle piazze, o entriamo nelle aule parlamentari o in quelle delle scuole e delle università, dove si parla molto in questi giorni, di verità, di quello che ne sappiamo e di quello che non ne sappiamo. E dove finisce allora in noi il desiderio di felicità per il quale Babel’ finì per essere considerato inadatto alla vita?
Sappiamo tutto e non ce ne facciamo niente perché quel che sappiamo potrebbe offendere qualcuno. E d’altra parte anche il non dirlo, il non distinguere più il vero dal falso, il bene dal male, non solo potrebbe offendere, ma offende molti: soprattutto offende le vittime, dando l’idea che la soluzione sia lo scetticismo dei potenti che, per conservare il loro potere, dicono che non esiste la verità. E così ce la caviamo con un nichilismo sentimentale che offre un po’ di misericordia e un po’ di verità a tutti, e che alla fine non serve a nessuno.
Come pensare di purificare la nostra coscienza senza dire tutta la verità? Ma come dire tutta la verità senza trasformare questo atto dovuto di giustizia in una semplice vendetta o in una condanna che riduce la verità a un bastone, e sporca anche le coscienze rimaste pulite?
Torniamo per un attimo a Babel’ e alla tragedia della Russia nel XX secolo: Solženicyn aveva detto che per uscire da quella tragedia il paese doveva pentirsi. E la cosa a molti era sembrata assurda: certo, qualcuno doveva pentirsi, eccome, ma le vittime? Che c’entravano le vittime con il pentimento? Cosa dovevano fare le vittime, piuttosto, per costruire una nuova Russia? E cosa dobbiamo fare noi, cosa deve fare ciascuno di noi che sa tutto, o che sa quello che altri non sanno e quindi ci dice che non si può sapere niente?
Perché ci sono le dietrologie, le cose che si giocano dietro le quinte del potere, la geopolitica che sfugge all’uomo della strada, gli accordi stipulati sotto i mille banchi del nostro culto del compromesso: e allora ci si divide tra quelli hanno in mano la verità e quelli per i quali la verità non esiste.
Non c’è risposta, credo, a questa domanda e non c’è uscita da questo vicolo cieco se concepiamo il pentimento (e poi la misericordia e il perdono) come una cosa rivolta al passato, come una cosa che dipende dal nostro fare i conti col passato (o con la verità, che crediamo di possedere o che vorremmo cancellare); se ragioniamo in questo modo, saremo sempre travolti dal male, fatto o subito: coi nostri “occhiali sul naso” faremo il computo dei più e dei meno, e la felicità resterà definitivamente inarrivabile. Ma il pentimento non inizia così, non inizia perché siamo schiacciati dal peso del male (questo è il senso di colpa o dell’offesa: altra cosa), ma perché siamo affascinati da un bene al quale siamo venuti meno e che continua ad attrarci, spalancandoci un futuro diverso.
Come ricordava la grande poetessa russa Ol’ga Sedakova in un suo recente intervento, nei testi cristiani delle origini, il pentimento non è accompagnato da lacrime di vergogna, ma da lacrime di gioia per la prospettiva nuova che si apre: non cadiamo nel baratro del nostro passato, ma ci risolleviamo per la vita che ci attende. Zaccheo, che poi si pentirà, si scopre innanzitutto guardato da un bene che deborda rispetto al male che può aver fatto (e che probabilmente era anche molto meno di quello fatto da tanti altri che non si sarebbero mai pentiti).
Se provassimo a toglierci gli occhiali dal naso forse potremmo ricominciare a sentire un po’ di tepore anche nell’anima, riscaldata da un desiderio che niente può spegnere o pretendere di colmare, richiamata alla vita da un bene che è molto più grande del male, ancora una volta, fatto o subito.
Per concludere ritornando all’inizio, una delle vittime della grande tragedia dalla quale siamo partiti, il vescovo Afanasij Sacharov, dopo più di vent’anni di lager, disse: «Tutto ha un senso, un significato e uno scopo. Non concepisco la possibilità che esistano persone inutili […], non c’è uomo che almeno una volta nella vita non abbia servito qualcuno […] e se ha servito è per quest’opera buona che la vita gli fu data. E se qualcuno in tutta la vita non ha offerto nemmeno un solo bicchiere d’acqua, qualcuno l’avrà offerto a lui! Allora significa che il senso e l’utilità di quella […] vita è tutta nel fatto che un altro ha potuto fare del bene grazie a lui».
Altro che sapere tutto, ma che felicità doveva avere il vescovo Afanasij. E noi siamo pronti a questa felicità? O per lo meno siamo pronti a ragionare e a vivere nella prospettiva che essa ci apre?