Un sacerdote russo ha chiesto di eliminare dai programmi scolastici alcuni racconti di Cechov, Kuprin e Bunin (premio Nobel per la letteratura) perché «lodano il libero amore», e in tal modo propongono un falso modello che costituisce «una bomba a orologeria per i nostri figli». Padre Artemij Vladimirov, scrittore e docente di omiletica, «persona esperta d’insegnamento», sicuramente con le migliori intenzioni ha fatto questa proposta all’ultima seduta della «Commissione patriarcale per la famiglia, la maternità e l’infanzia», il 12 marzo scorso. Ha raccontato di essere stato interpellato da alcuni studenti perché commentasse i racconti incriminati e ha così potuto constatare il danno che porterebbero all’educazione. La notizia è stata ripresa con grande risalto dalla stampa laicista russa, che ci si è buttata a pesce titolando sarcasticamente: “La Chiesa ortodossa vuole proibire Cechov”.
L’autorità ecclesiastica, dal canto suo, ha subito dichiarato tramite il suo portavoce che si tratta di un «parere personale» del sacerdote.
Tuttavia, l’idea del recinto di protezione con cui tenere lontani i rischi del confronto, o i nemici di ogni risma, è trasversale a tutta la società russa, come pure, mutatis mutandis, a quella occidentale. Ci sono delle parole chiave che fungono da barriera difensiva, al di là della quale non ci sono più delle persone con le quali discutere e eventualmente dissentire, ma categorie demonizzate in partenza: per il russo medio abbiamo il “fascista” o gli “agenti stranieri”, per l’ortodosso l'”immoralità”, per il laicismo occidentale abbiamo i “tradizionalisti” o, peggio gli “omofobi”, mentre sul versante opposto abbiamo il “crollo dei valori” o lo “scontro di civiltà”. Sono moralismi opposti che si allineano, omologati da un’identica mancanza di vere ragioni e da un identico spirito: la paura. In Russia c’è il timore che pervade una morale cristiana che si sente incapace di dialogare alla pari con la cultura e la società, e per questo chiude le porte; in Occidente c’è l’aggressività di una cultura che vuol tacitare ragione e fede per non doversi mettere in discussione e verificare le proprie argomentazioni né di fronte all’una né di fronte all’altra.
Ognuno difende il suo recinto perché in fondo prova paura e imbarazzo a guardare quel che sta fuori, ma così perde l’occasione di scoprire universi sconosciuti o, più semplicemente, la realtà.
Prendiamo ad esempio Cechov col suo «libero amore»: lui, agnostico e lontano dalla Chiesa per via di un padre ultra devoto e opprimente, è davvero così pericoloso?
Risentiamo come descrive un venerdì santo nella campagna russa, tetra e fredda, con un seminarista che racconta alle donne la Passione:
«Il seminarista pensava a Vasilisa: se si era messa a piangere, voleva dire che quello che era accaduto a Pietro in quell’orribile notte aveva qualche rapporto con lei. …Se Vasilisa si era messa a piangere e sua figlia era rimasta turbata, quello che lui aveva raccontato poco prima, e che era accaduto diciannove secoli addietro, aveva un legame col presente: con le due donne e, probabilmente, con quel villaggio deserto, con lui stesso, con tutti gli uomini. Se la vecchia si era messa a piangere non era perché il suo racconto fosse stato commovente, ma perché Pietro le era affine, e perché lei con tutto il suo essere partecipava a ciò che era accaduto nell’animo di Pietro. …Pensava che la stessa verità e la stessa bellezza che guidavano la vita degli uomini nell’orto degli ulivi e nel cortile del sommo sacerdote erano continuate senza interruzione fino a quel giorno, e sicuramente avevano sempre costituito la parte essenziale della vita degli uomini e in generale della terra quaggiù; e un sentimento di giovinezza, di salute e di forza, e l’attesa inesprimibilmente dolce di una felicità sconosciuta, misteriosa, si impadronirono a poco a poco di lui, e la vita gli sembrò meravigliosa, magnifica e piena di un alto significato».
E adesso come misuriamo il libero amore e l’evocazione di questa verità e di questa bellezza, che sono arrivate sino a noi dal calvario e che sembrano più convincenti per quell’agnostico di Cechov che non per un pio e dotto sacerdote? O non ci arrendiamo piuttosto davanti a questa esperienza di un pianto che è insieme pentimento, conversione e scoperta che in mezzo a tutti i tradimenti e le brutture esiste una vita meravigliosa? Di cosa abbiamo più bisogno, di maledire il nemico o di conquistarlo con un fascino più grande?