“Fare insieme”: due paroline semplici, di uso comune che segnano però una rivoluzione. Il titolo dato al Giubileo dell’Industria, incontro tra papa Francesco e la Confindustria avvenuto lo scorso fine settimana, ben lungi dall’essere un’esortazione buonista, porta al cuore di una domanda capitale: che cosa significa fare impresa in una società matura e postcapitalistica?
La concezione vincente, la più diffusa, quella che quasi tutti i giornali economici del mondo danno per scontata come unica, sostiene, secondo il dettato del liberista chicaghese Milton Friedman, che la missione dell’impresa è primariamente quella di creare valore per gli azionisti. Nella sua visione più ridotta ancora, Friedman parlava di “felicità degli azionisti”. L’impresa diventa quindi una sorta di atomo anarchico della società globale, che agisce per conto suo, che non deve tenere conto di nulla se non del massimo profitto.
E’ la riproposizione in chiave moderna della settecentesca favola delle api di Mandeville: dall’egoismo dei singoli (le api), attraverso la mano invisibile del mercato si ottiene il benessere collettivo (l’alveare). In questa visione “razionale” è l’imprenditore che cerca il massimo profitto in un tempo minimo, il trimestre se è in borsa, e ad ogni costo. Da questa concezione, da questo “riduzionismo”, nasce quello che viene chiamato “privatismo”.
In questa visione, sono variabili trascurabili sia il rapporto dell’impresa con una più ampia visione di politica industriale che riguarda tutto il Paese, sia il rapporto con il territorio in cui opera. E, per ciò che riguarda i rapporti interni all’azienda, l’occupazione non può che essere soggetta alla cosiddetta periodica “razionalizzazione”, cioè alla precarietà collegata ai cicli del mercato.
Questo tipo di impresa, che si è affermata, persino nel mondo delle banche, (Mediobanca è stata attaccata in Italia perché non creava “valore”, ma pensava alla tenuta del sistema) è vista da molti economisti come il prototipo non dell’“impresa irresponsabile”, ma di quella “responsabile”.
C’è un altro modo di concepire un’attività imprenditoriale, lontana dalla vulgata comune, che prima ancora che un modo diverso di fare, suggerisce un’idea di essere imprenditore. Non una figura isolata, ma una persona che vive di rapporto con gli altri, da cui impara e con cui costruisce: i dipendenti che non sfrutta perché considera alleati e non nemici di classe; i clienti, portatori di bisogni ai quali vuole rispondere; i fornitori che gli danno le possibilità di realizzare ciò che fa; tutte le persone coinvolte e il territorio, visto che il suo lavoro crea opportunità e servizi.
Quella del “fare insieme” o “fare con”, secondo il richiamo di don Luigi Giussani alla Compagnia delle Opere, fin dai suoi albori, è un’impresa che nel produrre ricchezza, vuole creare occupazione, diffondere, con i ricavi del successo conseguito sul mercato, i frutti del suo lavoro sul territorio, nella comunità. E’ quella in cui prevale un’idea realista e razionale di uomo, quella che considera l’uomo un essere relazionale, che può – insieme a – non lasciar restringere il suo orizzonte mentale e d’azione da materialismo ed egoismo individualista. In una parola, che sanno “lavorare con”, collaborando anche con una politica a partecipazione democratica, che deve inevitabilmente correggere le storture del mercato.
Purtroppo, verso la metà degli anni Settanta, quando un certo capitalismo ha cominciato a comprendere che il socialismo reale stava perdendo la grande partita della “guerra fredda”, il primo modello di impresa, quello individualista, fu assunto acriticamente da tutti in Occidente, anche dalla sinistra.
Particolare da tenere in considerazione è che la sinistra non comprese nemmeno questo contrasto. Si arrivò all’idea di “impresa responsabile”, dando per scontato che di per sé un’impresa è irresponsabile, cioè assorbe energie dalla società e non ne introduce di nuove, o accusandola di “paternalismo” quando la stessa promuoveva, come è successo, iniziative come il welfare aziendale (pensiamo a Olivetti). Quando poi l’Urss implose, quasi tutta la sinistra divenne ultraliberista, sponsorizzando, con l’Ulivo mondiale che doveva essere guidato da Bill Clinton, la massima finanziarizzazione dell’economia.
La svolta ultraliberista degli anni Settanta non si basava solo sull’attacco alla presenza dello Stato nell’economia. Era molto più elaborata e, sul piano teorico, era stata preceduta da un lavoro scientifico di indubbia alta classe. I nomi più noti sono quelli di Friedrik Von Hayek e di Milton Friedman. Ma probabilmente la più significativa e radicale avanguardia di questa concezione è stata la scuola americana delle cosiddette scelte collettive. La sua culla è stata l’università di Blackbourg in Virginia. Sulla traccia di precursori come Downs e Olson, un gruppo di giovani e meno giovani economisti americani ha sviluppato una ricca, coerente e rigorosa rivalutazione dell’individualismo economico. I suoi presupposti sono una concezione secondo la quale la società non esiste come soggetto (Margaret Thatcher espresse questo concetto con una frase spietata “la società non esiste”), ma solo come aggregato di individui e come somma di interessi individuali e un radicale economicismo, secondo il quale il comportamento degli uomini è regolato dal principio della massimizzazione del profitto individuale.
Per capire se questo liberismo sfrenato ha ragione di esistere, basta guardare gli effetti devastanti della crisi finanziaria, che non accennano a finire e, per la seconda volta nella storia dopo l’altra grande crisi del ‘29, portano all’impoverimento di vaste fasce del mondo. Se non bastasse, si guardi agli effetti sull’ambiente, finalmente oggetto di trattativa tra gli Stati. E ancora: la terza guerra mondiale non dichiarata non ha, al di là dei contrasti ideologici, profonde ragioni nella lotta per le materie prime, petrolio e affini? Si potrebbe continuare ma è chiaro che le api individualiste si stanno ammazzando a vicenda: altro che armonia dell’alveare.
Forse si poteva evitare tutto questo se non si fosse dimenticato l’insegnamento del premio Nobel Kenneth Arrow che, già nel 1955, con il suo teorema dell’impossibilità, dimostrò in termini matematici che se l’uomo vuole realizzare la sua utilità individuale senza limiti, l’esito è il monopolio in economia e la dittatura in politica. Nella seconda parte del suo trattato, forse volutamente ignorato, aggiunge che solo facendo prevalere i desideri socializzanti (il fare con!), quelli in cui tutti rinunciano a qualcosa del proprio interesse, è possibile affermare un sistema in cui domini il bene comune. Dopo l’orgia ideologica liberista-finanziaria si può correre ai rimedi: occorre che economisti, intellettuali, politici, imprenditori traducano in prassi e nuove teorie la “mossa economica” di persone relazionali. L’errore non è nelle teorie e nei modelli: anch’essi dipendono dalle ipotesi che vengono poste alla base. Abbiamo bisogno più che di un alveare di un nuovo accogliente villaggio – anche globale – fatto di gente che ama e ragiona.