Sul delitto del Collatino che ha causato la morte di un ragazzo di ventitré anni, ucciso per noia, ci si spalanca un baratro di silenzio. È bene tacere sull’orrore e su coloro che lo hanno provocato, lasciandoli incatenati alla “macina da mulino” che grava oramai, e per sempre, sul loro collo. 

Ma non può finire qui. Non si può archiviare tutto come effetto della droga, magari “gestita” in modo incauto: dove l’efferato delitto, in fondo, non è che il risultato di un banale errore di dosaggio, un errore nel quale i “veri esperti” non sarebbero mai incorsi. Così facendo si rende un pessimo servizio alla verità e quindi a chi, per prevenire, ha bisogno invece di capire proprio quest’ultima.

Alcol e cocaina possono spiegare il totale annebbiamento di umanità, possono permettere di comprendere il delirio dell’omicidio ed “i mostri” che lo hanno accompagnato. Ma l’aver scelto di assumere droga e cocaina per provare l’ennesimo brivido, preferendo l’adrenalina ai piaceri di una conversazione tra amici, le emozioni da sballo all’allegria ordinaria, la pianificazione di un assassinio come “svolta” ad una serata altrimenti priva di emozioni, sono scelte fatte in piena consapevolezza. 

Tuttavia, se questo definisce le responsabilità dei singoli, lascia ancora l’insieme del contesto comodamente in penombra. 

Le scelte, i progetti — anche quelli criminali — non maturano infatti senza un terreno di coltura, senza una visione del mondo e della vita che, in qualche modo, li rendano plausibili. Non c’è gesto deviante, come può essere anche quello di assumere alcol e cocaina, che non abbia un terreno fertile sul quale fondarsi, un terreno sul quale configurarsi addirittura come un gesto possibile. 

Ed è proprio da questa cintura culturale di legittimazione dell’irresponsabilità che bisogna partire.

Da decenni tolleriamo, meschinamente, una cultura dello sballo e della movida infinita. Siamo indulgenti dinanzi al “non fare”, al “non scegliere”, sopportando una sindrome di vacanza illimitata che sembra coinvolgere e travolgere il tempo libero, inteso come tempo delle sensazioni e delle emozioni, magari estreme. Dentro una tale concezione trova posto il narcisismo inteso come esaltazione e gratificazione del proprio sé. Questi si annida a segno distintivo sempre meno inaccettabile, sempre meno incompatibile con una società circostante che, irresponsabilmente, addirittura lo tollera, inserendolo utilitaristicamente nei modelli mediatici di maggior successo.

C’è un terreno di coltura che favorisce la devianza narcisistica, le stende il tappeto sotto i piedi, la rende quasi sempre accettabile, tollerabile: non è possibile negarlo. Ma se così è, allora queste torme di eterni adolescenti in parcheggio permanente effettivo, euforici abitanti della notte e indifferenti passanti del giorno, non costituiscono alcunché di banale, non sono minimamente l’effetto di una “moda” ma segnalano invece l’epilogo, tragico, di un’intera parabola culturale nata negli anni settanta e giunta al suo culmine parossistico in questi anni di fuga dalle responsabilità tanto individuali quanto collettive.

Questa parabola culturale può essere identificata con il principio di autoreferenzialità del proprio io, con il primato assoluto del proprio sé e delle proprie aspettative di piacere, intese come criterio discriminante — quindi come valore — in grado di orientare le proprie azioni e decidere la rotta della propria esistenza privata.

Nessuno approva i party a base di alcol e cocaina, ma ben pochi sono in grado di denunciare il principio antropologico che c’è dietro: quel primato del piacere compulsivo inteso come regola aurea, come principio ordinatore tra le diverse opzioni. Il piacere euforizzante come criterio assoluto, dinanzi al quale restano ben poche barriere, ben poche inibizioni: si tratta per lo più di riserve fragili, pronte ad esser fatte saltare in aria quando si ha in mano quel “passe-partout” liberatorio costituito dalle droghe, quelle stesse che qualcuno vorrebbe addirittura e irresponsabilmente legalizzare.

Si può condannare, si può stigmatizzare e ritrarsi inorriditi dinanzi a tanta perdita dell’umano. Ma si deve pure avere il coraggio di denunciare questa cultura dell’io senza l’altro, questa torrida e delirante incapacità strutturale di comprendere e di compatire, questo primato del proprio sé che eleva il non dipendere da nessuno a massima ambizione personale e vede nella propria mancata capacità di riconoscere gli altri, non il pericoloso segnale della propria deriva individualista ma, al contrario, il segno incontrovertibile della propria delirante indipendenza.

Occorre debellare e distruggere l’idea, onnipotente e intimamente perversa, della positività di un simile primato del proprio “io senza gli altri”, un primato che in molti arriva addirittura ad elevarsi come criterio aureo per la propria autoeducazione. Senza questa lotta al narcisismo dominante, sarà sempre più difficile giocare sui confini della tolleranza: tutto si ridurrà ad una partita di droga tagliata male, come se la perversione del proprio io che è alla base dell’acquisto e la scelta di usarla, fossero il problema minore e non la vera causa.

Ma non si combatte il narcisismo senza ridestare dal sonno il suo contrario, e questo è costituito dagli altri e dall’importanza della relazione con quest’ultimi. Imparare a considerare gli altri, apprendere a cedere, saper riconoscere il bene che riceviamo, accettare quei legami che ci fanno crescere è oggi l’unica vera e autentica contro-cultura possibile, l’unica strada per recuperare la nostra umanità smarrita. Tutto ciò che può concorrere a questo è il benvenuto.