Mi rendo perfettamente conto che quello che sto per dire può apparire contraddittorio. Infatti per suggerire una specie di digiuno dalle parole, devo per forza usare parole. Ma in fondo questo mi permette di dire in premessa che ho una stima infinita nella parola: è la forma con cui un pezzo intimo di noi esce dal buio e si propone all’altro. Nella sua originalità questa parte di noi che viene alla luce è anzitutto affermazione di un rapporto con le persone (la prima parola che diciamo è «mamma» o «papà») e con le cose (quando impariamo a nominarle); poi la parola ha la forma umile della domanda, del problema, della questione oppure quella altrettanto discreta del suggerimento, della proposta, dell’invito.
Alcuni banali episodi recenti mi hanno ricordato che, però, la parola è anche molto altro e decisamente meno nobile. A tavola gira una certa notizia che mi allarma, appena posso la verifico e scopro che è scorretta; chiedo a chi me l’aveva data perché fosse stato così impreciso e mi risponde con un’alzata di spalle: grosso modo è lo stesso, no? Scambio di numerose mail con un gruppo di collaboratori per correggere un brevissimo testo che deve uscire anonimo ma rappresentare il pensiero di tutti; qualcuno fa commenti sulle proposte altrui del tutto legittimi, senza accorgersi però di usare parole aspre, inutilmente appuntite, al di là del buon gusto; in questi casi ci si giustifica col fatto che il mezzo di comunicazione è iper veloce, la reazione deve essere immediata, qualche intemperanza può scappare e non si deve star lì a sottilizzare. Esco da una conferenza e sento un capannello di commenti; più che comprensibili il dissenso e il non apprezzamento di quello che si è sentito, ma mi stona il giudizio che taccia tutto come negativo assoluto, che non riesce a indicare nemmeno una parola che sia valso la pena ascoltare.
Ci teniamo alla precisione delle parole che diciamo? Ci domandiamo se per caso possono ferire l’interlocutore? Ci preoccupiamo della loro intrinseca vocazione a costruire? Costruire un rapporto, un pezzetto di vero, un attimo di gioioso sollievo, il lenimento d’una pena. Quando sono in metropolitana e vedo la quasi totalità degli astanti che scrive forsennatamente sul telefonino, mi viene da pensare che le domande appena fatte non attraversano l’orizzonte delle intenzioni di quei parlanti (sebbene, in questo caso, con parola scritta). Sembrano presi (come negli esempi fatti sopra) da una specie di moto compulsivo per cui la parola va detta comunque, in fretta, così come viene e, tutto sommato, a prescindere dalle conseguenze.
È un brutto modo di parlare, è un permanente, gigantesco, autoriproducentesi pettegolezzo. L’etimologia di questa parola è molto istruttiva. Secondo il vocabolario Treccani proviene dal veneto petégolo, il quale è un derivato di peto, «per allusione all’incontinenza verbale delle persone pettegole». Insomma, sembra che a volte noi parliamo con la stessa finezza, con la stessa volontà costruttiva, con la medesima attenzione a chi ci circonda, con lo stesso gusto del bello con cui produciamo un peto, cioè (definizione Treccani) «emissione, anche fragorosa, di gas intestinali attraverso l’orifizio anale». È così che attorno l’aria puzza e perciò bisogna aprire le finestre all’aria fresca di una sobria discrezione verbale.