Il Bimah, il pulpito usato dagli aschenaziti, non è al suo posto, da quando nel XVII secolo è stato tolto dal centro della sala per problemi architettonici. Nella Scola Grande Tedesca, una delle sinagoghe più antiche di Venezia, è possibile vedere panche con spalliere di legno nobile. La parete è decorata con marmi che creano dei disegni d’acqua. Dal soffitto pendono lampadari con molte braccia. L’ambiente è quello di un salone barocco, ma la sinagoga è più antica, dato che ha 500 anni. Dietro questa sinagoga vi è l’origine di una delle parole più orribili generate dal mondo moderno: ghetto. Una parola che si aggira come uno spettro per buona parte del mondo.

Il 29 marzo del 1516 le autorità della Repubblica Serenissima decisero di sottoporre a un controllo ferreo gli stranieri e coloro che non appartenevano alla religione maggioritaria. Così obbligarono francesi, spagnoli ed ebrei a vivere in una zona di Venezia poco salubre, nel quartiere di Cannaregio, vicino al monastero di San Gerolamo. Nei pressi c’era una fonderia, da cui il veneziano geto (gettata di metallo fuso), diventato poi ghetto. Lì vennero quindi confinati gli ebrei della Serenissima, raggiunti più tardi da altri che venivano dal resto d’Europa. La parole ghetto risponde quindi al tentativo molto moderno di “fondere” il differente, l’altro, di toglierlo di mezzo. All’inizio del XVI secolo, quando si stavano forgiando gli Stati moderni, non si voleva incontrare il diverso per strada. L’altro metteva in discussione il modello di cittadinanza uniforme. Ben diverso da quella medievale che era più disposta ad accettare la pluralità.

I veneziani li hanno confinati in un angolo, noi spagnoli li abbiamo espulsi dal Paese. Gli ebrei sefarditi hanno vissuto una diaspora nella diaspora. Ancora rimpiangiamo quello che abbiamo perso in quell’espulsione,  quello che i nostri ebrei ci hanno dato. Dopo la presa di Granada, nel 1492, con la fine della Reconquista, la Spagna diventa un regno completamente cristiano e si dà per scontato che tutti gli spagnoli siano cristiani o debbano esserlo. Chi non è cristiano non è dunque pienamente spagnolo, ma in qualche modo sleale verso il Paese. Un ragionamento che non sarebbe mai venuto in mente a un uomo del Medioevo. Dopo l’espulsione compare poi l’ossessione di dimostrare di essere un “vecchio cristiano”, un contraddizione in termini. Il cristiano infatti non è figlio di quaranta generazioni di cristiani, ma del battesimo. Una cosa è la fede, un’altra i costumi. La dimostrazione della purezza del sangue si trasforma in una malattia nazionale. In Francia il progetto di uniformità è, se possibile, ancor più esagerato.

Il ghetto è forse il segno più evidente del fatto che l’uomo moderno, che finirà per rifiutare, ritenendole superflue, la redenzione e l’espiazione, continua a essere prigioniero del bisogno di trovare un capro espiatorio. Il ghetto è necessario per rendere visibile la dialettica del nemico. L’altro, colui-che-non-è-come-noi, diventa una realtà distante, astratta. Può essere quindi accusata del male sofferto, di quello reale e di quello immaginato. Può essere la vittima sacrificale. In fondo solamente un’esperienza di redenzione del male data in anticipo permette di eliminare la dialettica del nemico, dà la libertà per scoprire nell’altro un io-come-il-mio. L’ingenuità moderna spesso sottovaluta l’imperativo che è il desiderio di espiazione.

L’altro che non è più una vittima necessaria ti obbliga a ripensarti, a dialogare, a riformularti. L’altro ti fa rendere conto che non puoi continuare a dare tutto per scontato, ti fa vedere che gli slogan, i codici della tribù non sono universali, che le idee stupende che hai scambiato per certezze non resistono dinanzi al tribunale esigente della storia e di te stesso.

Il ghetto è ancora chiuso, non è solamente nel quartiere di Cannarregio, ma lì dove la nostra stupidità, la nostra pigrizia, la nostra mancanza di curiosità, il nostro essere a proprio agio con noi stessi, ci lasciano bloccati nel nostro piccolo mondo grigio.