In questi giorni ho una profonda inquietudine nell’animo, soprattutto per alcune immagini viste sui mass media. Le foto da Bruxelles, e non solo, sulle comunità musulmane che non riescono ad assimilarsi; la cortina di filo spinato eretta dal governo austriaco al confine con l’Italia; la figura di Papa Francesco che denuncia i muri e chiama all’accoglienza; le immagini da Lesbo, in Grecia, con migliaia profughi mediorientali dove proprio oggi papa Francesco si recherà per abbracciarli e fare appello all’apertura dei confini.



Tutto questo non mi lascia tranquillo. Da un lato, i problemi dell’immigrazione musulmana sono reali, seri, e non basta il tempo a risolverli, almeno non il tempo di queste generazioni. Dall’altro lato c’è una crisi umanitaria reale, che riguarda sia chi fugge da guerra e violenza sia chi cerca luoghi più ricchi di opportunità.



Il governo austriaco è razzista? Non necessariamente. I problemi sono reali e pericolosi e nessuno finora ci sta presentando una strada facile nel costruire un futuro comune con queste comunità nuove. Il Papa è ingenuo o noncurante del popolo europeo e del suo patrimonio sociale-culturale? Non credo. È un uomo di grande intelligenza, fede e sensibilità. Come fare per capire? Cosa ci sta proponendo Papa Francesco? Come accogliere il suo appello, così carico di problemi drammatici per questa generazione e quelle future?

Una prima risposta a queste domande ha cominciato a prender forma in me quando ho potuto meditare un passaggio delle Sacre Scritture che mi ha aiutato. Ieri il rito ambrosiano ci ha presentato la lettura dagli Atti degli Appostoli in cui Saulo di Tarso (successivamente noto come Paolo) arriva a Damasco dopo essere stato reso cieco dall’incontro fulminante col Signore Gesù. Un cristiano di Damasco del nome Anania ha una visione di Gesù che gli comanda di cercare Saulo per accoglierlo. Ma Anania fa un’obiezione: “Signore, riguardo a quest’uomo ho udito da molti quanto male ha fatto ai tuoi fedeli a Gerusalemme. Inoltre, qui egli ha l’autorizzazione dei capi dei sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome”. Infatti, pochi versetti prima, l’autore ci dice che Saulo stava “spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore”. 



Anania ha ragione. Saulo aveva fatto molto male ai credenti ed era autorizzato a fare molto di più. Eppure il Signore non cambia idea e Anania obbedisce con cuore forse molto turbato. Doveva sembrargli non solo di consegnarsi nelle mani di un nemico molto temibile, di fare un gesto che avrebbe messo in grave pericolo la sua famiglia, i vicini, gli amici e i fratelli credenti. Ma lo ha fatto. Perché? Perché il Signore aveva risposto così: “Va’, perché egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni”. 

Cosa poteva aver capito il povero Anania di questa risposta? Poco o niente. Ma ha capito che il Signore avrebbe usato quest’occasione, questa persona pericolosa, per diffondere la speranza misericordiosa che ormai era l’unico fondamento della vita di Anania. 

Infatti, quando Anania arriva da Saulo e lo abbraccia nel nome del Signore, “subito gli caddero dagli occhi come delle squame e recuperò la vista”. Ha scommesso tutto, Anania: casa, vita, famiglia. Ha scommesso tutto su un gesto di misericordia folle, accogliere uno che minacciava lui e i suoi, nella speranza che la novità di vita divina che l’aveva fatto rinascere alla vita eterna potesse capitare di nuovo, lanciandolo nell’avventura di un futuro sconosciuto, pieno di pericoli ma guidato verso il destino, già incontrato nel Signore Gesù. 

Questa lettura mi aiuta a seguire la visita del Papa a Lesbo pieno di speranza, convinto che il suo appello non è buonismo insensato, ma la scommessa che l’unico avvenimento che redime la storia umana e la fa ripartire di nuovo, fresca e piena di promessa, è — oggi — una possibilità per tutti noi, quella di accogliere, nel nome del Signore, chi ci fa paura.