È stato nel campo profughi (ormai diventato una sorta di prigione) di Moria. Francesco avanzava lentamente senza che il servizio di sicurezza consentisse di avvicinarsi a un gruppo di siriani che sollevavano dei cartelli in cui chiedevano aiuto e libertà. Una donna di mezza età è riuscita a eludere i controlli e si è inginocchiata davanti al Papa. Tra le lacrime gli ha raccontato la sua storia. Francesco non poteva capire tutto perché il traduttore era rimasto indietro, ma nel silenzio, nel linguaggio universale della sofferenza, si sono compresi l’un l’altra.

La visita del Papa a Lesbo corre il pericolo di essere interpretata come il grido di Giovanni Paolo II davanti al secondo intervento militare in Iraq: “No alla guerra”. “Siamo venuti per richiamare l’attenzione del mondo su questa grave crisi umanitaria e per implorarne la risoluzione. Come uomini di fede, desideriamo unire le nostre voci per parlare apertamente a nome vostro. Speriamo che il mondo si faccia attento a queste situazioni di bisogno tragico e veramente disperato, e risponda in modo degno della nostra comune umanità”, ha detto il Papa a Lesbo.

“Cosa sta dicendo il Papa?”, si domandavano in molti nel 2003, mentre le bombe venivano sganciate. La stessa domanda riappare oggi. È logico che i papi lancino messaggi spirituali, parlino di carità e solidarietà. Ma poi occorre “costruire la storia”. Tredici anni fa, in nome di un realismo storico, è stato fatto un intervento che ha destabilizzato tutto il Medio Oriente. Si era creato un certo consenso internazionale sulla necessità di togliere di mezzo Saddam Hussein. Ora l’Iraq è uno Stato fallito, il baathismo è scomparso e non pochi quadri sunniti sono passati con Daesh.

Il consenso sui rifugiati, almeno dal mese di marzo, è cambiato in seno all’Ue. Il Consiglio europeo ha voluto siglare l’accordo con la Turchia per frenare gli arrivi grazie alle espulsioni. Già a marzo, dopo la chiusura delle frontiere nei paesi balcanici, l’arrivo di immigrati in Germania si è drasticamente ridotto. La Merkel comanda perché la Germania è lo Stato che più ha accolto. Nella politica dei rifugiati non c’è, come nella politica monetaria, un Draghi disposto a iniettare liquidità nel sistema nonostante le proteste del Governo tedesco.

Dalla scorsa estate c’è stato un cambiamento, con la Cancelliera e buona parte dell’intellighenzia e dei media d’accordo, dopo l’entusiasmo iniziale, sul fatto che occorre mettere ordine. E l’ordine comprende appoggiarsi alla Turchia, socio “scivoloso”, dalle mille facce che fa accordi con l’Europa e si mostra accondiscendente con Daesh.

“Non c’è posto per tutti, bisogna stare attenti a chi arriva”, è il grande tema. I leader del Consiglio europeo, a partire dalla Merkel, si sono messi dietro, e non davanti, a un’opinione pubblica che ha paura della globalizzazione. La globalizzazione dei mercati, della cultura, dei rifugiati provoca in quasi tutto il mondo una seria crisi d’identità. 

Davanti allo sconcerto si cercano appartenenze semplicistiche, ideologiche, in cui si possa arrivare facilmente all’individuazione di un nemico. Non è solo un fenomeno europeo. La classe media statunitense che pensa di non avere più una patria si rifugia in Trump. In seno all’Islam, davanti alla sfida di una modernità che non si comprende, si annida il jihadismo. In India, la democrazia più popolosa del pianeta, dove dagli anni ’90 il Fmi ha imposto formule di apertura, il nazionalismo induista fa furore. 

L’Europa è cambiata radicalmente in meno di quindici anni. Nel 2004 si guardava con normalità all’ampliamento a dieci paesi dell’Est che erano stati sotto il comunismo. Non è lo stesso accogliere rifugiati o nazioni che storicamente avevano fatto parte del Vecchio continente, però anche queste venivano da una cultura molto diversa: la cultura, o non-cultura, postcomunista. In un sol colpo 100 milioni di persone entrarono nell’Unione. E questi paesi sono quelli che negli ultimi anni hanno ricevuto più aiuti. Oggi i quattro paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) sono quelli che si oppongono maggiormente all’accoglienza di rifugiati, pur avendo meno stranieri nelle loro società e avendo ricevuto ingenti fondi nel periodo 2007-2013. La Repubblica Ceca, che ne ha più beneficiato, ha avuto 3.300 euro pro capite. L’Ungheria 3.200. L’Europa che senza esitazione ha aperto le porte all’europeo-non-europeo ora si ribella.

L’identità europea si ripiega su una specie di nazionalismo del benessere. Lo fa dopo aver dato negli ultimi anni una nuova stretta alla privatizzazione delle questioni riguardanti il senso della vita e lo stare insieme. Dopo aver abbracciato il mondo postcomunista e le forme di multiculturalismo considerate neutre. Questo benessere che sembra darci sicurezza non esiste, non tornerà a essere come quello del passato. Così come non esiste nemmeno il mondo ideale inventato dall’induismo nazionalista o il Califfato. La globalizzazione, riaprendo il problema dell’identità, fa tornare a galla la questione del significato. E scompare anche il sogno europeo di censurarla.