Alcune settimane fa sono stato invitato a participare a un incontro sul tema della misericordia. L’uomo che era con me sul palco, Edmonds, ha raccontato una storia di conversione davvero affascinante. Ha cominciato dicendo che dopo venticinque anni di vita trascorsi fra l’alcol, la droga e la malavita, la sua salvezza è arrivata quando è stato arrestato e messo in prigione. In carcere è finito in un programma di lavoro esterno dove oltre alle varie mansioni, si pregava.
Quando ormai gli rimaneva poco tempo da scontare, Edmonds ha detto alla sua responsabile che non voleva che quell’esperienza finisse. Lei gli ha dato il suo numero di telefono. Una volta fuori, col telefonino in mano ormai praticamente al verde, ha deciso di usare l’ultima telefonata rimasta per chiamare la donna.
Invece della donna gli ha risposto il marito, che si è accordato con lui per venire a prenderlo.
Fra i due è cominciato un rapporto educativo durissimo. Il marito della dirigente della fabbrica, non mollava un attimo e spremeva Edmonds fino in fondo, volendo per lui tutto ma anche domandandogli tutto. Per insegnargli come vivere senza l’alcool e la droga, l’uomo lo faceva lavorare tantissimo senza fargli guadagnare quasi nulla. Quando Edmonds guadagnava, l’uomo teneva quasi tutto, lasciandogli solo il minimo per vivere. Col tempo Edmonds è cresciuto e per lui è cominciata pian piano, ma giorno dopo giorno, una nuova vita, fino al punto di sposarsi e poi avere un figlio.
Commentando la sua testimonianza ho detto che per lui, com’era stato per me, la misericordia veniva a noi in una forma durissima che ci giudicava in tutto ma, invece di condannare, il giudizio costituiva un nuovo inizio, l’invito a stare insieme, in un modo più vero, dentro una comunione che non sarebbe mai finita. Affrontando la sfida della paternità, Edmonds ha dichiarato che ciò che oggi davvero vuole per suo figlio è che egli possa desiderare per sé tutto il bene che desidera lui.
Il racconto dell’ex carcerato Edmonds mi ha fatto riandare con la mente a un mio vecchio rapporto, che anni fa mi aprì la porta ad un’altra vita. Lui era un professore, un prete e rettore della mia facoltà di lettere classiche. Era un cattolico che giudicava tutto e i suoi giudizi sulle questioni dell’aborto, dell’omosessualità e più in generale della morale e della politica mi sembravano del tutto intolleranti e insopportabili. Li contestavo con furia ogni volta che potevo: in classe e fuori, scrivendogli in privato e in pubblico, sulla stampa e fra gli studenti. Ma poi, in certi momenti critici della mia carriera accademica, era sempre lui la persona che, spesso senza commentare, ascoltava le mie difficoltà, prendendomi sul serio e aiutandomi. Però nei suoi giudizi rimaneva durissimo.
Il giorno della laurea, quando cercai di ringraziarlo, disse “Non mi devi ringraziare. Siamo stati fortunati ad averti con noi, perché le tue domande difficili ci hanno costretti a dare risposte. Abbiamo molto guadagnato”. Capii così che il suo sguardo, che mi sembrava sempre così duro, era misericordia. Il suo giudizio su di me non era una condanna, ma un invito a stare con lui nella verità, anche al prezzo di dover soffrire molto.
In questa domenica della Divina Misericordia chiediamo su di noi e su tutti lo sguardo di Cristo Giudice, che non ci giudica per condannarci per i nostri peccati, ma come un invito a essere lavati nel Suo sangue, per permetterci, resi degni delle Sue promesse, di stare con Lui per l’eternità.