«Ti prego, ti supplico, mi prostro in spirito d’amore ai tuoi sacri piedi, imploro la tua Beatitudine di essere conciliante in questa situazione, nel timore che tu, nel tentativo di sanare le differenze esistenti, giunga allo scisma, cosa ben più tremenda, e nel tentativo di edificare induca una grande sciagura. Pensa a che cosa accadrà se la grande Sede di Pietro, che ha il primato d’onore, si separasse dalle nostre sante Chiese: il male si diffonderà ovunque e il mondo sarà nell’afflizione, i regni di questo mondo saranno scossi e il dolore si diffonderà ovunque, e le stelle cadranno in ogni dove».

Sono le accorate e profetiche parole con cui il patriarca Pietro di Antiochia si rivolgeva al Patriarca Michele Cerulario alla vigilia del Grande scisma del 1054 che avrebbe diviso irreparabilmente le Chiese d’Oriente e d’Occidente.

Parole profetiche, che delineavano l’immane portata di una tragedia consumatasi lungo secoli, non solo a livello delle gerarchie ecclesiastiche o delle spartizioni di potere, ma in primo luogo a livello della persona. Un uomo diviso, scisso, la cui tragica inconsistenza assume oggi sfaccettature curiosamente analoghe in Occidente e in Oriente. L’individuo polverizzato, senza legami, privo di nessi con la totalità e quindi di significati, sembra oggi aver spostato la crepa della scissione più all’esterno, tra un «noi» corporativamente inteso e un «altro» che si identifica sempre con un pericolo, una minaccia. È di qui che nascono i fondamentalismi: diversi, inequivocabilmente, e con gradazioni di violenza ben diverse ma, in fondo, determinati dalla stessa logica che trova cittadinanza anche nel mondo cristiano, in casa ortodossa come in casa cattolica, quando Cristo resta sullo sfondo e la preoccupazione è far trionfare la «purezza dell’ortodossia» e «battere l’avversario». Questo «avversario» può assumere volti diversi, ma paradossalmente è diventato parte integrante dell’identità di molti cristiani, che non saprebbero concepirsi altrimenti che arroccati in difesa.

Oggi, per molti in Russia l’«avversario» torna a essere il Vaticano: a due mesi dall’incontro a Cuba tra il Papa e il Patriarca Kirill, nella Chiesa russa affiorano vistosi fenomeni di intolleranza da parte di «zeloti» presenti non solo tra i laici, ma anche tra il clero e l’episcopato, che promuovono manifestazioni e meeting di protesta, lanciano appelli e denunciano l’«eresia cattolica» che sembra aver contagiato addirittura il Patriarca. Sono epifenomeni di processi e sommovimenti che aprono crepe e suscitano nel tessuto della comunità ecclesiale crisi di cui è difficile prevedere svolgimenti ed esiti, ma che lasciano intravvedere drammatici interrogativi, notevoli rischi ma anche nuove possibilità.

È fin troppo facile dire che, oltre a una situazione pregressa di ignoranza e di sospetto anticattolico e antioccidentale di cui forse si sottovalutava la portata, Mosca paga oggi la politica di accuse di «proselitismo» e «aggressività» portata avanti per anni nei confronti della Chiesa cattolica dopo la caduta della cortina di ferro: generazioni educate in questo spirito si trovano oggi disorientate davanti all’improvvisa svolta – che a loro sembra un voltafaccia – nell’atteggiamento dell’autorità ecclesiastica, davanti alla nuova apertura e all’invito al dialogo e all’unità che sentono risuonare dall’ambone.

Il Patriarcato di Mosca ha già risposto pubblicamente più volte attraverso interventi di esponenti della gerarchia e comunicati ufficiali in cui cerca di mettere un punto fermo alle polemiche. Non mancano, in questi testi, mezze verità e tesi strumentali, ma vi si coglie anche un accento nuovo: l’affermazione dell’importanza di paragonarsi e dialogare con il mondo e con il «diverso», del valore dell’unità fra i cristiani.

In questa non facile situazione, forse per la Chiesa ortodossa sta creandosi, come mai in questi ultimi venticinque anni di libertà religiosa, un’occasione educativa, una possibilità di aiutare i propri fedeli a fare un passo di maturazione: innanzitutto a sentire l’altro come un bene, un arricchimento per sé, a rendere e chiedere ragioni dell’esperienza della fede senza barricarsi dietro regole, canoni e anatemi.

Ma la Chiesa russa ha offerto in questi giorni anche un’altra, importantissima testimonianza: quasi in parallelo alla visita a Lesbo di Papa Francesco insieme al Patriarca Bartolomeo e all’Arcivescovo Ieronymos di Atene, il 6-7 aprile una delegazione bilaterale cattolico-ortodossa russa composta da Mons. Pezzi, ordinario dell’Arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca e da padre Stefan (Igumnov), segretario del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, si è recata in Libano e in Siria a visitare alcuni campi-profughi e comunità cristiane locali. Cattolici e ortodossi, «fratelli nella fede», come è stato ripetuto più volte, si sono fatti insieme carico del dolore del mondo, insieme hanno portato la preghiera e la solidarietà delle rispettive Chiese, insieme hanno testimoniato una dimensione  di umanità oggi troppo spesso dimenticata o cancellata.

È quest’unità vissuta la scommessa davanti a cui si trovano oggi la Chiesa e ogni singolo credente: amare l’unità del Corpo di Cristo, soffrire e lavorare per essa, perché il mondo ne ha bisogno, perché «non si debba più affliggere e cessino di cadere le stelle».