“Una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor”; l’incipit di Bella ciao risuonerà spesso oggi, giorno della liberazione. Questa canzone, nata — pare — sull’Appennino emiliano, è diventata l’inno del movimento partigiano (in specie quello di ispirazione comunista) ed è poi stata cantata in infinite piazze ogni 25 aprile. Deve il suo successo internazionale al fatto di essere stata portata al Festival della gioventù democratica di Praga del 1947 (colossale specchietto per le allodole della propaganda del blocco sovietico) e da lì esportata in mezzo mondo.
Ma chi è “l’invasor”? Ovviamente gli autori della versione originale pensavano ai nazisti che dopo l’8 settembre 1943 da alleati del nostro paese si sono trasformati — insieme ai fascisti repubblichini di Salò — in feroci occupanti. Finita la guerra, dietro a quel nome si sono avvicendati diversi obiettivi polemici. Per i partiti di obbedienza sovietica l’invasore erano gli Stati Uniti che esportavano in Europa occidentale il loro modello economico e culturale e le forze politiche che li appoggiavano (la Dc, in sostanza). Nel Sessantotto, quando il canto partigiano ebbe una vigorosa fiammata di notorietà e utilizzo, l’invasore era un po’ genericamente tutto quello che sembrava coartare la libertà: il sistema, l’autorità, la tradizione. E queste cose venivano di volta in volta identificate col capitalismo e imperialismo (di marca Usa ovviamente), ma anche col preside della propria scuola che vietava un’assemblea, coi poliziotti che presidiavano le piazze piene di manifestanti, coi giudici reazionari, coi vescovi non aperti alle più azzardate interpretazioni del cattolicesimo, coi “padroni” insensibili alle richieste del movimento operaio. Passata l’onda ideologica, l’invasor si è rimpicciolito fino alle dimensioni di un presidente del consiglio sgradito ad un conduttore televisivo.
E oggi? Sicuramente a molti verrà da pensare che l’invasore sono i profughi che arrivano sulle nostre coste; significativamente per descrivere il fenomeno molto spesso si usa il verbo “invadere”. Altri diranno che la vera invasione è quella dei nuovi media che non lasciano un istante di spazio nei cervelli della gente e li ingombrano di suoni e contenuti molto più omologati di quanto faccia pensare la varietà delle loro provenienze. Altri penseranno a complotti internazionali, alla finanza anglosassone o araba, alla massoneria eccetera. Insomma si tende a qualificare come “invasore” tutto ciò che altera l’equilibrio in cui si vive.
Ma non è detto che ogni alterità che attraversi in nostri confini (non solo geografici) sia da guardare come una minaccia da cui difendersi erigendo muri. Può essere scomoda, complicata da capire ed accettare, sconvolgente lo status quo, ma non necessariamente nemica. La chiusura a riccio sulla tranquilla routine del déjà vu è una sconfitta. Non dell’alterità che si presenta, ma di chi non le si apre. Certo, parlo di un’apertura che non rinnega nulla di ciò in cui si crede e che si ama; di un uomo che non rinuncia alla bella cui si dice “ciao” ed è disposto a “morire per la libertà”.