La straordinarietà di un paese come l’Italia è quella di essere una paese plurale. Ad esempio ogni altro paese ha una capitale e tante altre città chiaramente gregarie. L’Italia è invece un paese a capitali diffuse. Non è solo un modo un po’ retorico per tessere l’elogio della vitalità della nostra provincia. La realtà è diversa: in nessun paese la provincia riesce ad assumere un ruolo tanto trainante, a diventare modello come solo alle capitali riesce di essere. 

La premessa mi serve per arrivare a parlare di un fenomeno come quello della “capitali culturali” che sta portando alla ribalta città capaci di rimodellarsi e di proiettarsi nel futuro facendo leva sul proprio passato. Le cose sono  andate così: nel 2014, in occasione della selezione finale per la scelta della capitale culturale 2019, le sei città in lizza si sono presentate con dei dossier di sorprendente qualità. Alla fine com’è noto ha vinto Matera, ma giustamente il ministro Franceschini ha pensato bene che quel patrimonio messo insieme dalla città sconfitte non dovesse andare disperso. Così ha lanciato l’iniziativa delle capitali italiane della cultura. Nel 2015 è toccato alle cinque non selezionate (Cagliari, Lecce, Ravenna, Siena e Perugia). Quest’anno invece l’ha spuntata Mantova. Il prossimo anno la capitale sarà Pistoia: due città scelte tra le 24 che si era candidate. E intanto è stato lanciato il bando per il 2018. A ogni città vincitrice il ministero assegna un milione di euro che vengono poi integrati da risorse raccolte sul territorio.

In che senso queste città di “periferia” sono davvero capitali? Per tanti motivi, ma con uno in particolare. Sono città che hanno capito come il passato sia una patrimonio vivo su cui immaginare il proprio futuro. Un patrimonio inteso in senso largo: non solo di monumenti, ma fatto di identità, di saperi, di mestieri, di bellezza intesa come insieme di pietre e di esperienze vissute. Un passato vissuto insomma in modo generativo.

Essere capitali perciò significa indicare al nostro paese una strada, forse la sola strada percorribile per costruire un futuro. 

Per fare questo bisogna rimettere in gioco sia il concetto di patrimonio sia quello di cultura. Il patrimonio non è il nostro “petrolio” come recita una metafora mercantilista e stupida che abbiamo sentito tante volte in bocca a intellettuali e politici. Il patrimonio non sono bellezze da custodire alla bell’e meglio e da far rendere. Il patrimonio è un’esperienza. In un certo senso il patrimonio siamo noi, nel momento in cui sappiamo rendere vivo e presente qualcosa che ci è stato dato, e che ci appartiene. Le nostre piccole capitali della cultura questo lo hanno capito. E hanno immaginato i loro progetti non solo per attrarre e per essere catalizzatrici di nuovi flussi turistici “intelligenti”, ma per rafforzare una coscienza diffusa, per creare nuovo capitale sociale, per far crescere competenze e quindi anche lavori. 

E qui si innesta il secondo concetto rivisitato e rivitalizzato: quello di cultura. Non è più cultura intesa come “settore” qualificato e qualificante, ma è cultura intesa come coscienza che trasversalmente tocca tutti i segmenti della realtà. Nelle nuove capitali la cultura smette di essere intesa come prezioso mondo a parte, prezioso magari anche per le ricadute economiche che comunque garantisce. La cultura invece diventa un modo di vivere e di amare ciò che il passato ci ha messo davanti agli occhi e tra le mani, qualunque mestiere si faccia e qualunque ruolo si rivesta. Cultura è coscienza diffusa, è dimensione civile, è fattore di coesione, è bellezza che si fa esperienza oggi. 

Le nostre piccole capitali sono capitali proprio per questo: sono una vera fucina dell’Italia che verrà, come recita il servizio di copertina del prossimo numero del mensile Vita a cui ho avuto la fortuna e anche la gioia di lavorare. Perché vedere rifiorire un’Italia così, innamorata della propria storia e proiettata sul proprio futuro è esperienza che davvero gioia e speranza.