Il gesto dell’assessore ai lavori pubblici del Comune di Milano che, per protesta verso un’automobile in sosta abusiva che impediva la pulizia di un muro nella giornata del “cleaning day”, ha pensato bene di imbrattarla di vernice bianca, passandoci sopra il rullo predisposto per la pittura che aveva a portata di mano, ha fatto scalpore. Ovviamente il gesto in sé è stato condannato e lo stesso assessore ha assicurato che la sua protesta era più simbolica che reale, visto che si trattava di vernice non indelebile. Tuttavia ha ammesso di non essere affatto pentita, il suo era un legittimo “atto di ribellione ad un gesto di arroganza”.
Tanto il gesto quanto la sua giustificazione non sono affatto banali e non hanno alcunché di estemporaneo, ma riproducono un sentimento diffuso che tanto peso ha occupato e occupa nella scena politica italiana (ma anche europea): si tratta del sentimento di indignazione, del diritto ad indignarsi. Si tratta di un sentimento di lungo corso che da almeno quarant’anni trova il proprio posto sulla scena politica e non c’è dubbio che, oggi, un tale sentimento abbia guadagnato ulteriori spazi di accettabilità.
Dinanzi ad un sopruso manifesto, ad una palese ingiustizia, la risposta indignata trova sempre di più diritto di cittadinanza: è possibile esprimerla, è possibile comprenderla. Gli indignati sono oramai un vero e proprio partito politico, spesso trasversale. Indignarsi diviene il fulcro di ogni sana democrazia e chi lo fa è certamente dalla parte giusta, mentre chi non si indigna o magari non manifesta la sua indignazione in modo vistoso, rischia di essere sospettato di ogni forma di connivenza possibile.
Ciò che colpisce è la nostra conoscenza delle conseguenze. Sappiamo infatti come l’indignazione rischi spesso di essere un fuoco di paglia, tanto più effimero quanto più ogni singolo atto deviante, ogni singola soperchieria nasconde e copre problemi reali ben più profondi, sui quali spesso si spuntano le nostre lance migliori.
Sappiamo anche che l’indignazione, come ogni emozione, costituisce un ostacolo all’analisi, alla riflessione accorta, che invece è proprio quella di cui abbiamo bisogno per affrontare il problema e risolverlo. Non è un caso se tutti coloro che devono realmente far fronte alle soperchierie di ogni sorta facciano il massimo per dominare le proprie emozioni e siano gli ultimi a sfilare sul fronte degli indignati.
L’indignazione è l’esito di un’analisi rapida, dove il male si spiega sempre con la mancanza di civiltà, di cultura, di senso civico, cioè con variabili comportamentali che albergano nella piccineria e nella meschinità dell’animo umano. Si finisce allora per non vedere la malformazioni strutturali che ci sono dietro, le derive di lungo corso che hanno fatto sì che comportamenti meschini e incivili trovassero sempre minori resistenze dinanzi a loro. Si finisce per non vedere i problemi ben più gravi che si celano dietro ogni devianza, dietro ogni disonestà.
L’indignazione costituisce una vera e propria scorciatoia che ci libera da qualsiasi analisi approfondita, nella convinzione, errata, che qualsiasi digressione rischierebbe di funzionare come un’assoluzione implicita di chi è responsabile del gesto indegno ed inqualificabile. Si colpisce così il responsabile, magari in modo esemplare (o in modo isterico, secondo il livello di indignazione) mentre non si sradicano le radici, non si attaccano le altre devianze che ne hanno fatto da premessa.
La macchina in divieto di sosta non è frutto solo dell’inciviltà o anche più semplicemente del nervosismo e del logorio dell’autista che l’ha parcheggiata. Dietro quel gesto di maleducazione c’è la percezione di un universo senza regole, segnato da una conflittualità permanente, dove i comportamenti devianti appaiono sempre più diffusi, dove il malcostume regna ogni volta che i riflettori si spengono e gli agenti in servizio si allontanano. Chi lo ha fatto è convinto di avere agito in conformità ad una devianza estesa e dominante. Una devianza che penetra ovunque ci sia possibilità di lucro, ovunque si aprano le porte dei vantaggi personali, in un’orrida scalata ai comportamenti devianti rispetto ai quali il parcheggio della propria auto gli appare come una monelleria assolutamente risibile.
L’asse del discorso allora si sposta. Per chi parcheggia in modo abusivo ed illecito basta una multa. Per togliere di mezzo l’immagine di un mondo deviante, per liquidare una società che si vede distorta e deviata, l’indignazione è semplicemente inutile. Al suo posto ci vuole il suo esatto contrario: l’opera. Si tratta di un fare condiviso per costruire quelle opere di bene civile del quale abbiamo sempre di più bisogno. Anziché indignarsi occorre analizzare e costruire, operare ed edificare. Per chi devia e commette gesti di inciviltà bastano le multe e le condanne in sede penale, purché si facciano quando occorre.