«I migranti mi pongono una particolare sfida perché sono Pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti». Scriveva questo papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelli Gaudium. E in questa affermazione si può trovare la ragione che lo ha fatto decidere al viaggio sull’isola di Lesbo annunciato ufficialmente ieri. Inutile mettere davanti ragionamenti culturali o di geopolitica. Il papa, com’è suo carattere, si è mosso innanzitutto in virtù di un impeto umano, di un desiderio di abbracciare chi oggi si trova da migrante in quell’isola limbo: un popolo senza patria e senza terra, che pur essendo sbarcato in Europa, viene tenuto alla porta dall’Europa. Per i lettori che avessero perso qualche passaggio delle contorsioni europee davanti all’emergenza dei migranti, oggi a Lesbo è stato aperto un hotspot — di fatto un campo di detenzione — dove migranti che abbiano motivi per chiedere il diritto d’asilo aspettano il riconoscimento di tale diritto. Tutti gli altri, sulla base degli accordi pagati a suon di miliardi di euro con la Turchia, dall’inizio di aprile vengono “rimpatriati”. Insomma Lesbo è l’emblema della confusione e dell’ipocrisia comunitaria in materia di migrazioni.
Ed è proprio a Lesbo che il 15 aprile prossimo Francesco metterà piede, insieme al Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I. Una scelta che ha evidentemente un risvolto politico difficile da nascondere, ma che va ben oltre quell’aspetto. Il gesto di Francesco infatti suggerisce qualcosa di più semplice e anche radicale: è indicazione di un altro approccio davanti a quello che è il più impressionante fenomeno umano del nostro tempo. Per capire basta rifarsi alle immagini del recente Giovedì Santo, quando il papa, per il rito della lavanda dei piedi, ha scelto di recarsi in uno dei più grandi Cara d’Italia, quello di Castelnuovo alle porte di Roma, dove sono “ospitati” 900 migranti. Chi c’era racconta un risvolto che non è entrato nelle cronache: il Papa infatti ha voluto salutare ad uno ad uno tutti i migranti, con un fuori programma durato un’ora e mezza. Sappiamo che questo è nello stile di Francesco. Ma pensato in quel contesto e soprattutto rapportato al più complessivo contesto europeo, quel gesto aveva assunto un significato ben preciso. Che non è semplice riaffermazione del valore dell’accoglienza, ma di qualcosa che viene prima e che genera le ragioni dell’accoglienza: il riconoscimento dell’altro come positività.
Nelle parole e nei gesti del Papa verso i migranti si scorge sempre l’ardore di una simpatia istintiva, che mette persino in secondo piano per un istante i drammi che li riguardano. È questa simpatia che gli fa dire parole spiazzanti come quelle pronunciate in occasione dell’Angelus per il Giubileo dei migranti: «La vostra presenza in questa piazza è il segno della speranza di Dio. Non lasciatevi rubare questa speranza».
Il Papa rovescia i termini. Non è la disperazione che fa muovere i popoli, ma la speranza di una vita degna di essere vissuta. E questa speranza è un esperienza umanamente così potente, da essere un «segno della speranza di Dio».
Chiudere le porte a questi popoli migranti è quindi chiudere le porte alla speranza che loro portano. È un’operazione a saldo disastrosamente negativo per tutti.
La decisione del Papa di andare a Lesbo vuole ribadire questa semplice verità dettata non da analisi o da visioni più o meno intelligenti e corrette, ma da una semplice apertura alla realtà. Che il Papa a Lesbo vada poi in compagnia di Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli, sta ad indicare come questa apertura alla realtà (e quindi all’altro) possa essere il volto di un’altra Europa. Che dalle sue radici attinge l’energia ideale per andare incontro al futuro. Che è un futuro profondamente diverso da quello scritto nei copioni dei burocrati di Bruxelles.