Cosa fanno i disoccupati italiani quando cercano lavoro? La maggior parte (otto su dieci) chiede ad amici, parenti e conoscenti. Niente di male, per carità, perché, contro la vulgata che vede del marcio in tutto, una relazione di aiuto, se non ha lo scopo di frodare la legge, è sempre qualcosa di positivo. Il problema invece è che con un livello di disoccupazione da emergenza nazionale, i soggetti preposti all’incontro tra domanda e offerta di lavoro non godono di grande fiducia. Solo poco più di un quarto degli italiani in cerca di lavoro, infatti, secondo i recenti dati Eurostat, si rivolge ad agenzie per l’impiego, sia pubbliche che private.

In un tale quadro di sfiducia, tra le misure introdotte dal Jobs Act c’è la creazione di una Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, l’Anpal, inaugurata il primo gennaio ma ancora non operante. Basterà per cambiare la tendenza in atto?

Intanto il dibattito sull’efficacia del Jobs Act prosegue, per la verità, troppo spesso viziato da un equivoco che riguarda sia i suoi detrattori che i suoi sostenitori. Sia chi accusa il Jobs Act di incentivare il precariato, sia chi lo ritiene responsabile del lieve recente calo della disoccupazione, sembra tenere poco in conto il fatto che una legge che disciplina il mercato del lavoro da sola non può rimettere in moto un sistema imprenditoriale che arranca, ma può giusto fare ciò che le compete: essere uno strumento efficace in nesso con un piano di rilancio dell’economia.

Un altro errore che spesso si nota nel dibattito pubblico è considerare il sistema economico come un insieme di meccanismi, anziché un ambito che ha un’identità precisa. Nello specifico, le imprese italiane, nel contesto globalizzato in cui si muovono (a maggior ragione adesso che il mercato interno è fermo), si caratterizzano per il livello qualitativo che offrono.

Per questo un imprenditore ha bisogno non della precarietà, ma di una forza lavoro qualificata e fidelizzata, motivata e capace, coinvolta nella ricerca continua di nuovi prodotti.

E’ interessante allora il percorso che hanno iniziato a intraprendere alcune agenzie di somministrazione (ex agenzie di lavoro interinale) che si stanno orientando verso la formazione e la qualificazione dei lavoratori. Non solo hanno iniziato ad assumere a tempo indeterminato i lavoratori che prestano servizi (in somministrazione) presso i loro clienti, ma ne curano il percorso professionale, qualificandolo. In una parola, questi soggetti, si stanno trasformando da agenzie di somministrazione lavoro a imprese di investimento in capitale umano. Così come le imprese che acquisiscono prodotti grezzi o semilavorati e li trasformano in prodotti finiti per immetterli sul mercato, queste agenzie assumono persone impreparate o poco qualificate, le formano e le aiutano a riprendere il loro cammino lavorativo. In un frangente storico come questo è importante capire che non se ne esce puntando solo sulla diminuzione dei costi aziendali, ma ce la si può fare puntando sulla qualità, cioè sulle persone.

E non si tratta più solo di spingere perché il nostro Paese, oltre che ad assicurare sussidi per chi perde il lavoro, cominci finalmente a puntare su politiche attive, quelle cioè che facilitano l’incontro tra domanda e offerta e migliorano la possibilità di accesso all’occupazione. Si tratta proprio di virare decisamente verso politiche di investimento in capitale umano. Perché sia realistico però mancano almeno un paio di cose fondamentali. La prima: il coinvolgimento delle università, perché il mondo della riqualificazione professionale non sia più lasciato in mano solo ad associazioni di categoria o a sindacati, ma si possa avvalere di contributi più strutturati e di alto livello.

Dall’apprendistato a master e dottorati, servono progetti che uniscano stabilmente il mondo del lavoro a quello della formazione permanente.

La seconda: l’investimento in capitale umano dovrebbe poter essere ammortizzato nel bilancio delle imprese. Se accade per il costo di un macchinario, non si capisce perché non dovrebbe essere possibile anche per le spese sostenute per formare i dipendenti.

Gli sgravi più importanti a favore delle imprese dovrebbero essere quelli per le persone che ci lavorano. In Italia questo è un problema serio, tanto che il sistema imprenditoriale non è in grado di valorizzare in modo adeguato i lavoratori più istruiti (infatti i giovani vanno all’estero), continuando stupidamente a pensare di poter essere in questo modo più concorrenziali. In realtà, alla lunga, questa politica potrebbe davvero penalizzarci.

Anche il Jobs Act, visto nell’ottica del legame tra politica industriale e politica del lavoro e dell’investimento in capitale umano, può essere uno strumento interessante. Ma dobbiamo smetterla di guardare le cose con una lente di ingrandimento deformata.