Il 9 maggio in Russia era il giorno della vittoria; le celebrazioni sono state accompagnate, come ormai da diversi anni, da una nutrita serie di polemiche, generate dall’eccessivo culto della forza e aggravate quest’anno da una sempre più consistente e inquietante ripresa del culto di Stalin, il cui volto è riapparso in molte città russe, su enormi cartelloni che lo presentavano come l’artefice della vittoria.
È un peccato che sia andata così, perché le polemiche rischiano di far dimenticare che qualcuno da ringraziare c’è effettivamente, e non in nome della forza ma in nome di qualcosa che rende un paese ancora più grande.
Chi deve essere ringraziato sono innanzitutto i 27 milioni di morti che il popolo russo ha pagato per avere ragione del nazismo; a loro va la gratitudine di tutti, russi e non russi, mentre nessun ringraziamento può essere tributato a Stalin, perché la guerra è stata vinta non grazie a lui, ma a suo dispetto, nonostante la condotta dissennata con la quale (prima e durante la guerra) ha quasi portato alla rovina le forze armate del suo paese. Forse oggi molti dimenticano che ai tempi di Stalin la giornata della vittoria non era contrassegnata da particolari celebrazioni, anzi, dopo il 1947 aveva persino smesso di essere giorno festivo: come se il dittatore volesse rimuovere i cattivi ricordi dei suoi errori e non far rinascere i sogni di libertà che quella vittoria aveva comunque generato in molti combattenti.
Poi, quando si era ricominciato a celebrare la festa, dal 1965, ormai sotto Brežnev, la memoria era tornata e, nonostante la ricerca storica non fosse ancora libera, era tornato il ricordo della tragedia ed era rinato il bisogno di ringraziare i veri eroi. Persino negli slogan di quegli anni si sentiva questo senso della realtà; uno diceva: “Perché non accada mai più”, e il giudizio sul valore della guerra era chiaro. Un altro, invece, aggiungeva: “Siate degni della memoria dei caduti”, perché fosse altrettanto chiaro che se la guerra non doveva più ripetersi, chi era morto lottando contro il nazifascismo era degno di eterna memoria. Come ricordava in un recente articolo Nikolaj Epple, era un’eterna gratitudine che doveva essere tributata ai soldati e ai civili mandati a “sommergere il nemico con i propri corpi” da un tiranno per il quale la vita non aveva nessun valore.
Oggi che è tornata la libera ricerca storica, ciò che regna negli slogan più diffusi non è più la gratitudine e la condanna della guerra. Paradossalmente, adesso che si può raccontare senza impedimenti cosa fu la guerra, quella tragedia sembra non fare più paura a nessuno e si sentono dei minacciosi “se sarà necessario, lo rifaremo”; mentre si rispolvera la formula intimidatoria e spietata: “non dimenticheremo, non perdoneremo”.
Soffocati dal culto della potenza e compiaciuti di quello che la nostra forza ci permetterà di fare, non abbiamo più spazio né per la gratitudine né per il perdono.
La gratitudine, infatti, nasce dalla coscienza di dover ringraziare qualcuno che ti ha dato qualcosa che non ti era dovuto; il caso della guerra, con tutte le sue tragedie, ci pone davanti a uno dei vertici di questa donazione che nessuno di noi potrebbe aspettarsi o pretendere: si tratta di ringraziare chi è arrivato a sacrificare la sua vita e a offrircela. È l’esatto contrario del culto della potenza perché si esalta un gesto di totale spoliazione e gratuità, il cui valore non dipende dall’esito, da una vittoria che potrebbe anche non venire, ma sta tutto nell’amore che lo costituisce e che, invece di diminuire quando viene condiviso, cresce proprio nel donarsi.
Questa è la legge dell’amore: che cresce quando viene dato; una società, degli uomini che non capiscono questo non sono ovviamente capaci di perdono, perché ogni volta che si tratta di perdonare perdono inevitabilmente qualcosa che non sanno se potranno mai riguadagnare. E allora si capisce l’altro slogan: “non dimenticheremo, non perdoneremo”; quelli che lo urlano temono, perdonando, di restare a mani vuote, e non si rendono conto che proprio la loro incapacità di perdono finirà per esaurirli davvero.
Non è questa la vera Russia che ha vinto il nazifascismo e il suo culto pagano della forza.
Nel 1942, Semën Frank, uno dei grandi rappresentanti del pensiero religioso russo, costretto a emigrare in Occidente dopo la rivoluzione, si chiedeva preoccupato chi avrebbe vinto la guerra. La domanda non era accademica, ma vitale, perché Frank era stato bandito dal regime comunista e sapeva che se avesse rimesso piede in Russia sarebbe stato immediatamente fucilato e nello stesso tempo era braccato dai nazisti perché, pur essendosi convertito al cristianesimo, era di origine ebraica (fino alla fine della guerra avrebbe portato in tasca una fialetta di veleno per non lasciarsi prendere vivo dalle SS). La risposta che diede era semplicissima, e come aveva funzionato allora nell’Europa in guerra, può tornare ad essere esemplare anche oggi nell’Europa in crisi: “il vincitore, alla fine dei conti, sarà quello che comincerà a perdonare per primo”.