Desiderò che la sua vita tra gli uomini restasse un lavoro-incompiuto. Lo annunciò prima che accadesse, anticipando gli eventi: “Molte cose ho ancora da dirvi“. Chi ha altre cose da dire, è solito intrattenersi ancora un po’. Lui, da parte sua, siccome ha ancora delle cose-da-dire, che fa? Ascende al Cielo: se ne va. Perché è questo che noi capiamo nell’Ascensione: che prima Lui c’era e adesso non c’è più. Il Crocifisso, al confronto, pur trapanato di chiodi era una presenza: da piangere, da celebrare, da profumare. Una presenza defunta, pur sempre presenza, però. Meglio di un’assenza che impaurisce. Il sospetto che la confidenza di Lucifero fosse veritiera — E’ un Dio geloso quello che vi ha detto di non mangiare dell’albero. Non fidatevi di lui! — ruggisce fuori dal cenacolo.
S’alza in volo verso il cielo, pur confidando — senza imbarazzi — che aveva ancora delle confidenze da fare, forse le migliori. Le più robuste, quelle che “per il momento non siete capaci di portane il peso“ (Gv 16,12). Parte, dunque, per andare dal Padre e pregarlo di sbloccare il loro immenso capitale custodito nel forziere del Cielo: lo Spirito Santo, il Paraclito. Alla faccia di quel coccodrillo di Lucifero: altro che Dio geloso, quello che si svela tra l’Ascensione e la Pentecoste è un Dio altruista, prosperoso, perdutamente innamorato delle sue creature. Per loro, esige sempre il massimo. E il massimo, nelle sue logiche, è fidarsi di loro. Per questo sale, lasciando il lavoro-incompiuto: a Lui interessava pronunciare la prima-parola, non aspirò mai ad avere l’ultima-parola su tutto. Alle risposte secche e decise preferì le domande aperte, d’evocazione. Quando gli chiesero il perché della morte, scelse di piangere l’amico morto. Nei giorni in cui gli chiedevano l’amore, lui porse delle occasioni per amare. Gli fecero domande a torrenti, lui rispose con domande ulteriori: è genio divino. Quando gli chiesero di restare, partì: vi scorse l’attimo giusto per iniziare a dipendere dalle sue creature. E’ stile d’impareggiabile disarmo.
Lo Spirito che scende è amore: forse per questo nessuno è ancora riuscito a spiegarlo, a dargli una fisionomia che non fosse una colomba tramandataci di pittore in artista. L’amore, per sua natura, è percezione: due amanti che si spiegano, stanno scrivendo i titoli di coda della loro storia. E’ amore lo Spirito: perciò “vi ricorderà tutto quello che vi ho detto“ (14,26). Non è il ricordo di chi si sforza di tenere a memoria: il ricordo (re-cordare) è amore allo stato grezzo. Riportare al cuore, rimettere al centro. Nell’Ascensione Cristo lascia incompiuta la sua opera “fino a quel sacro dì, quando su te lo Spirito Rinnovator discese, e l’inconsunta fiaccola nella tua destra accese” (A. Manzoni, La Pentecoste).
Parte Lui, per far partire la sua Chiesa. Vado e torno, non mi vedrete più e mi vedrete ancora, salgo e scendo: Pentecoste è una modestia guerriera, un silenzio assordante. Una rivoluzione ch’è rivelazione: ciò che prima pareva follia oggi pare melodia cortese: “Noi t’imploriam! Placabile Spirto discendi ancora”.
A ciascuno la sua caparra di Spirito, su ciascuno la giusta dose di grazia e beltà: che ciascuno — “dall’Ande algenti al Libano, sparsi per tutti i lidi” (A. Manzoni) — sia autore della sua storia. Che l’uomo divenga attore della grande storia. L’Ascensione senza Pentecoste è una truffa: se n’è andato, lasciando tutto non-finito. La Pentecoste, dopo l’Ascensione, è garanzia d’affidabilità: se n’è andato, lasciando tutto in mano nostra. Dio non mente, non si smentisce: alla faccia di ciò che volle far credere il Satanasso. Ancora una volta Dio s’è spinto fin dove nessuno aveva ancora osato: scelse di farsi da parte per fare spazio agli uomini. Fino a far (di)pendere il destino della storia di quaggiù dalle loro gesta, grandi o infami che siano. Pentecoste è l’inizio del più grande azzardo della storia. Nasce la Chiesa, l’azzardo di Dio.