Nel 1966, cinquant’anni fa, in una cittadina simile a tante altre della Cina centrale viveva una ragazza di quattordici anni di nome Jung Chang. I suoi genitori da giovani avevano combattuto perché il comunismo s’installasse al potere e adesso erano alti funzionari del partito; c’erano state delle dure lotte interne, ma ormai — credevano — era acqua passata. Da un po’ di mesi, però, si aveva la sensazione che qualcosa di grosso stesse succedendo, un terremoto col suo epicentro nella lontana Pechino, dov’era la cittadella proibita del potere di Mao Zedong.
Il quale era molto preoccupato perché non aveva più saldamente in mano la dirigenza del partito; se n’era accorto nell’autunno del 1965, quando aveva stilato un elenco di autori e opere letterarie da condannare e combattere e nessuno s’era mosso. Aveva addirittura scritto un articolo sull’argomento, ma il Quotidiano del Popolo, il giornale ufficiale del partito, si era rifiutato di pubblicarlo. In quell’articolo Mao parlava di “Rivoluzione culturale” e quindi decise di usare questo slogan per definire la grande operazione con cui intendeva riprendersi le redini del potere: in pratica si rivolse direttamente ai giovani dell’immenso paese esortandoli a scovare e combattere i “nemici del Popolo”, i subdoli fautori del capitalismo nascosti sotto le apparenze di zelanti comunisti. Come riconoscere i traditori? Non è un problema: “Comincia a distruggere; la ricostruzione verrà da sé” diceva uno degli slogan della Rivoluzione culturale.
Dai primi di maggio nella scuola di Jung (e in migliaia d’altre) non si facevano più le lezioni, ma gli studenti si trovavano a studiare a memoria frasi celebri del presidente Mao (verranno comodamente raccolte in un libretto di colore rosso, che sarà il vademecum della Rivoluzione), a trascriverle su giganteschi tazebao, a dar la caccia ai nemici. Che erano furbi e sfuggenti come serpenti. Un giorno gli studenti lessero sul Quotidiano del Popolo, tornato in mano a Mao, di un vecchietto che aveva tappezzato la sua misera casetta con ben 32 ritratti del presidente Mao, per poterlo vedere subito — diceva al giornalista — in qualunque posizione si fosse risvegliato: grandi elogi da parte del giornale. Ma qualche giorno dopo il Quotidiano riportava la notizia che il vecchietto era stato smascherato: usava i ritratti di Mao — stampati sui carta buona e distribuiti gratuitamente — come tappezzeria e l’autore del precedente articolo era stato arrestato per “aver offeso il Presidente Mao”.
Così istruiti, i compagni di Jung Chang avevano individuato come nemici di Mao praticamente tutti i professori della scuola e li avevano rinchiusi in un’aula in attesa di decidere la loro sorte. Arriva la madre di Jung, che è l’autorità ultima della scuola, e ordina di liberare i professori perché non ci sono accuse credibili contro di loro; i ragazzi ubbidiscono, ma alcuni se la legano al dito: questa dirigente del partito è in combutta coi nemici del popolo, bisognerà attaccare lei. Cosa che puntualmente avverrà così come in tutta la Cina parecchie migliaia di funzionari del partito saranno maltrattati e uccisi dall’orda delle giovani Guardie Rosse che, imbracciando il libretto dello stesso colore ed il fucile, provocheranno un’onda ti terrore che sconvolgerà il paese per dieci anni, tanti quanti ne vivrà ancora Mao.
Jung Chang ha raccontato la sua storia nel bel libro intitolato Cigni selvatici. Dell’anniversario della Rivoluzione culturale non si è parlato tanto; rileggere il romanzo di Jung può aiutare a capire non solo vicende storiche passate, ma dinamiche più frequenti di quanto ci si possa immaginare. La storia di quel vecchio prima esaltato e poi distrutto, il timore rassegnato di quegli insegnanti che si lasciano “arrestare” dagli studenti, la malignità di chi usa di una “nobile causa” per fare i propri interessi son tutte cose che vediamo quotidianamente. Più di rado — ma fortunatamente c’è anche questo — vediamo il coraggio simile a quello della madre di Jung, che si oppone al flusso melmoso della menzogna, ben sapendo che la pagherà.