Che ci fa la street art chiusa nelle sale di un museo? Nell’arco di poche settimane, prima a Bologna e ora a Roma, abbiamo assistito allo stesso fenomeno. Due esposizioni diverse, organizzate per altro da due fondazioni ex bancarie, che assecondano quella che sembra una febbre mediatica del momento: la popolarità di tanti street artist e delle immagini che hanno generato. A Bologna addirittura sono state portate nelle sale di Palazzo Pepoli delle opere strappate dai muri; a Roma invece ci si è limitati a esporre i multipli che il più celebre street artist del mondo, Banksy, realizza per una galleria londinese.

Per capire il senso (o meglio il non senso) di operazioni come queste, bisogna fare un passo indietro. La street art è un fenomeno espressivo di grande interesse, spontaneo e pubblico, nato come forma di contestazione e di messa a nudo delle ipocrisie del sistema a partire in particolare dagli anni 70. Proprio questa sua natura originariamente antagonistica ha fatto sì che spesso gli autori, per quanto famosi, si coprano con pseudonimi e nascondano le proprie identità. Come succede proprio per Banksy, di cui si sa quasi tutto, ma il cui volto resta sconosciuto. 

Con il passare degli anni però la street art ha profondamente cambiato la sua natura. E da fenomeno corsaro si è via via trasformato in fenomeno sempre più corale e partecipato. Proprio Roma e tanti suoi quartieri di periferia sono stati testimoni di questa profonda mutazione. Quartieri che hanno “consegnato” i loro muri alla fantasia di questi artisti di strada, perché creando immagini concilianti o combattive, dessero un valore aggiunto a quelle zone depresse e abbandonate dalle politiche pubbliche. Oggi alla Garbatella come al Quadraro, a Casal Bernocchi piuttosto che a San Basilio decine di giganteschi muri si sono riempiti di opere a volte firmate dai migliori street artist del momento, tanto da diventare attrazione turistica. I grandi murales sono realizzati per iniziativa di comitati di quartiere o di associazioni come Muro, la più attiva, fondata da un artista, David Vecchiato. Per questo sono opere realizzate alla luce del sole che hanno determinatamente perso quelle caratteristiche clandestine delle origini. Avere l’opera di uno street artist tra le proprie strade diventa motivo di orgoglio e risveglia un senso di appartenenza. 

Nel mutamento genetico però alcune caratteristiche sono state mantenute. La street art resta arte “a tempo”: trattandosi di opere all’aperto sono destinate per loro natura a sparire. In secondo luogo la street art si è mantenuta ai margini di quelle logiche di mercato che invece hanno risucchiato l’arte contemporanea. 

Per questo se la si porta in un museo e la si presenta incorniciata, come succede ai quadri di una qualunque galleria, si fa un’operazione contro natura. Ed è quello che è accaduto prima a Bologna (dove non a caso il più celebre street artist italiano, Blu, ha inscenato una clamorosa protesta distruggendo i suoi murales in città) e ora a Roma. Ma l’operazione romana ha un ulteriore aspetto “contro natura”. Infatti, a dispetto dell’evoluzione che la street art ha vissuto in questi anni, Banksy è rimasto legato all’idea originaria: è rimasto battagliero, clandestino e antagonista. In questi anni ha saputo creare immagini di un’icasticità straordinaria. Immagini virali che sono state replicate milioni di volte, condivise in ogni angolo del mondo. Il suo fascino e la sua forza sono legati a questa sua natura irriducibilmente corsara e genialmente mediatica. Ora, vederlo intrappolato dentro mediocri cornici, tra le sale di un elegante palazzo romano, addomesticato a dimensione da salotto mette molta tristezza. L’arte infatti è anche il suo contesto. Strappata dalla strada, la street art perde la sua ragion d’essere: perde infatti la strada e perde anche quell’aurea che l’ha resa un fatto d’arte. Speriamo che Banksy se ne accorga e ne combini una delle sue.