Uno se ne può andare quando potrebbe rimanere per sempre. 

Se guardo alla mia storia, alle cose della mia vita, devo riconoscere di aver avuto tante occasioni per sperimentare la veridicità di questa affermazione, sia nell’esperienza del lavoro che nella nostra personalissima storia di emigrati che a un certo punto hanno deciso di lasciare il loro paesello. 

In fondo è un pensiero elementare, semplice da capire: se ho imparato a voler bene alla realtà in cui vivo, alle circostanze e ai volti della mia giornata, insomma, se sto vivendo davvero, allora il prendere e partire alla ricerca del nuovo e del di più porta una promessa; ma se sto scappando da quel che mi circonda, se sto cercando di dimenticare, in questa mia fuga ciò che mi tormentava prima mi seguirà e continuerà a tormentarmi dopo.

In cuor nostro tutti noi occidentali (che a differenza di tanti in questo mondo ancora a tutt’oggi non siamo costretti a lasciare la nostra terra per sfuggire a guerre e bombardamenti), sappiamo benissimo se stiamo partendo perché “cerchiamo” o perché “scappiamo”. Probabilmente facciamo di tutto per evitare di pensarci troppo, ma lo sappiamo. 

Sono cose che mi sono tornate alla mente in questi giorni leggendo sui giornali che qua, nella terra dei pionieri, siamo in controtendenza. La gente non si muove più, certamente non si muove più come prima. Della irrequieta e irrefrenabile ricerca del nuovo e del di più che ha caratterizzato gli Stati Uniti sin dalla loro nascita sembrano essere rimaste poche tracce. Il senso di “non mi basta quel che ho” che portava gli uomini a mollare tutto lasciandosi alle spalle a volte anche un cumulo di macerie (famiglie incluse) per una nuova responsabilità professionale o un pugno di dollari in più, sembra aver lasciato il passo ad aspirazioni stanziali. 

Ci si potrebbe legittimamente chiedere se questo accade perché tutti hanno raggiunto un invidiabile punto di equilibrio e sono felici dove sono. Ma guardi a come siamo messi, al crescente disagio sociale, agli squilibri economici, all’ostilità verso tutto ciò che è politico ed è subito evidente che non è così.

Oggi lo stato confusionale del desiderio e la fragilità delle certezze che ci sostengono rischiano di rendere la paura di perdere quel che si ha più forte del fascino per l’avventura. E’ una nuova forma di fuga: si resta, ma si è assenti. 

Il desiderio, la “ricerca della felicità”, l’unica grande e vera driving force dell’America, sbanda dopo aver trascorso due secoli e mezzo al galoppo lungo le sconfinate praterie di questa terra.

Qualche giorno fa ho sentito ripetere quella portentosa frase di San Tommaso che ci dice che “La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione”. 

Quando si parte, c’è forse qualcos’altro che stiamo cercando? Anche quando si fugge è così. Ognuno in cuor suo decide su cosa scommettere, che nome e volto dare a questo cambiamento, a questa auspicata fonte di soddisfazione. Di fatto abitualmente finiamo per pescare tra ciò che la mentalità dominante ci propone. Ma la mentalità cambia e così gli stereotipi che ci offre. Ricerca vera o fuga che fosse, una volta si cambiava città, si cambiava lavoro, si cambiavano amici ed ambiti. Poi si è imparato a cambiare la famiglia, a cambiare il coniuge o partner, e oggi a cambiar sesso, a cercare di cambiare la propria natura nel disperato tentativo di trovare quel senso di soddisfazione senza il quale la vita è morta.

Quando salgo in subway la mattina mi guardo e guardo quelli che mi ritrovo attorno e penso che i nuovi pionieri siamo noi. Partiamo tutti i giorni e tutti i giorni restiamo legati allo stesso cammino fatto delle stesse cose. Quei binari sono la prateria della nostra avventura quotidiana a New York City e quello che ci aspetta è la sfida del rapporto con la realtà – che detto così può suonar strano, ma altro non è che riuscire a gustare di ogni istante della vita. 

Che si parta o che si resti.