E’ l’inizio di un cambiamento necessario: questo è il giudizio sulla riforma costituzionale che gira nel dibattito pubblico di queste settimane tra gli osservatori moderati. Pur con i suoi limiti essa ha comunque il valore di attivare un percorso non più rimandabile almeno per quanto riguarda l’abolizione del bicameralismo perfetto e la riduzione dei costi della politica.
Purtroppo questa riforma avviene in un momento difficile e confuso per ciò che concerne uno dei suoi punti più importanti, quello del rapporto tra Stato centrale ed enti locali.?La precedente riforma costituzionale, quella del 2001, che aveva introdotto la tanto attesa svolta federalista, era stata concepita in modo sbilanciato, attribuendo cioè alle Regioni molte funzioni legislative che invece era giusto rimanessero al centro (ad esempio l’energia). L’irrazionalità del riparto di competenze diede origine a continui conflitti tra Stato e Regioni e a una serie di interventi correttivi da parte della Corte Costituzionale volti a ristabilire le competenze statali.
E’ maturata così la convinzione che l’unico modo per risolvere il problema fosse quello di riportare al centro organicamente (e non solo tramite interventi della Consulta caso per caso) competenze e funzioni, sottraendole alle Regioni. A questo si è aggiunto un clima generale di discredito che ha coinvolto diversi amministratori locali.
In questi anni purtroppo tutto questo è stato tradotto con interventi a dire poco pressapochisti.
Innanzitutto va detto che l’aumento della pressione fiscale non è stato frutto delle autonome scelte operate dagli enti locali, ma decisione del governo centrale. Le tasse locali sono state sostituite da tasse centrali che non vengono versate agli enti locali.
Un secondo ordine di considerazioni riguarda il paradosso per cui il governo centrale, nell’operare i tagli e progettare politiche di austerity, ha finito per penalizzare le Regioni virtuose e premiare quelle in deficit. Nell’ambito della spending review l’articolo 14 del decreto legge 66 del 2014, fissando il limite di spesa per le consulenze in percentuale rispetto alla spesa per il personale dell’amministrazione, premiando le Regioni che hanno personale in eccesso.
Il Veneto, ad esempio, spende circa 145 milioni per pagare il suo personale, la regione Campania circa 330 milioni, la regione Sicilia circa 1.700 milioni (oltre 10 volte quello che spende il Veneto). Bene, la norma in questione ha fatto sì che il Veneto abbia speso in consulenze 202.000 euro, la Campania 461.000 (cifra triplicata dopo l’entrata in vigore della legge), la Sicilia addirittura 2.380.000 euro.
Un secondo esempio in questo campo riguarda la spesa sanitaria. In Italia, il rapporto tra spesa sanitaria e Pil è del 7%, ma con Regioni che spendono il 5,5% (Lombardia) e altre che spendono il 10,7% (Campania). E le Regioni più efficienti nella cura non sono quelle che spendono di più, al punto che i pazienti fuggono da lì per farsi curare nelle Regioni che offrono maggiore qualità e sono anche più efficienti.
In una situazione del genere è stata attuata una politica di tagli orizzontali che ha di fatto punito chi è virtuoso e non ha sanzionato chi doveva esserlo.
Così si tollera che vi siano Regioni come la Lombardia che ha 44,3 dipendenti pubblici ogni mille abitanti e una spesa pubblica media per dipendente di 30.641 euro annui a fronte di altre regioni come la Sicilia dove i dipendenti pubblici sono 63,4 ogni mille abitanti e per i quali si spendono in media 32.500 euro annui.
In sostanza, ricentralizzando tutto, si sta buttando via il bambino (chi funziona bene) con l’acqua sporca (lo spreco di chi ha usato male l’autonomia). Non è mancata la ciliegina di una configurazione perlomeno strana delle città metropolitane che se in Europa sono Berlino, Parigi e Londra, in Italia sono anche Sassari e Cagliari!
In questo clima, la riforma che voteremo fra pochi mesi non si sottrae a questo pressapochismo. Innanzitutto non attua l’intervento fondamentale: ripensare al numero e alla configurazione delle Regioni, visto che alcune sono grandi come Stati europei e altre più piccole di quartieri di Milano. Essa poi prevede che le materie di competenza legislativa regionale si riducano da 19 a 6, cosa che avrà un sicuro riverbero anche sull’amministrazione statale, i cui poteri risulteranno incrementati. Ora, siamo sicuri che una amministrazione centrale che poco ha a che fare con la burocrazia efficiente del vecchio impero asburgico o anche solo con gli alti funzionari dello Stato francese, possa migliorare le cose? Inoltre, perché uno strumento di controllo come quello dei costi standard, che dovrebbe ridare responsabilità agli enti locali, viene escluso per le cinque Regioni a statuto speciale, alcune delle quali mostrano sprechi di risorse pubbliche enormi e ingiustificabili, che nulla hanno a che fare con politiche di redistribuzione? E ancora, non è chiaro chi deciderà tra Stato e poteri locali in quanto non si è voluto dare un chiaro e preciso carattere federalista al Senato, come ad esempio è in Germania.
A questo punto, per evitare contenziosi continui e confusione, maggiori funzioni andrebbero invece date all’attuale Conferenza delle Regioni e delle Province autonome come luogo di negoziazione e di confronto tra i diversi livelli di governo finalizzato a realizzare un maggiore controllo sulla spesa, mettendo fine ai tagli lineari e aprendo una possibilità di intervento là dove una Regione si mostrasse meno virtuosa delle altre.
Purtroppo vale una massima attribuita ad Aldo Moro: quando si vuole semplificare occorre stare attenti a non banalizzare.
Perciò, se la riforma entrerà in vigore, sin da subito vanno messi in atto interventi che vi diano attuazione e che facciano fare passi avanti al processo riformatore, in una logica equilibrata e matura di sussidiarietà verticale tra Stato centrale e sue articolazioni territoriali