Del Dio cristiano, calata la sua avventura umana, null’altro è rimasto come presenza che un tozzo di pane. Come memoria, memoriale, nostalgia. Ancora oggi, negli scantinati dell’umanità, togliete il superfluo e ciò che rimarrà sarà il pane: Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Precursore di Pollicino, il Nazareno scelse di lasciare traccia di sé nel pane: il pane è il re della tavola, tutto il resto è una corte che lo circonda. Pane-e-cipolla, pane-e-pomodoro, pane-e-acqua. In un pezzo di pane, stringendoci, c’è posto per tutti, anche per me e Giuda: mangiare pane-a-tradimento. Gli inizi del Cristo stanno a Betlemme, “la casa del pane”; il testamento lo scrisse al cuore di Gerusalemme, attorno ad una tavola con del pane sopra. Non si lasciò scappare l’occasione: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo“.
Dopo i trent’anni vissuti a più non posso, la fragilità del Dio-Bambino non bastò più ai suoi occhi d’amante, d’amore, d’amato. Scelse di farsi cibo: materia da assaporare, da masticare, da gustare. Il minimo che basta per far esplodere la più ambiziosa delle storie d’amore, la sua: “Chi di noi madri, chi di noi amanti, al contatto con il corpo del proprio figlio neonato o del proprio uomo, non ha sentito il bisogno prepotente di farsene cibo? Chi di noi, nell’amplesso d’amore, non ha segnato con i propri denti il corpo del proprio uomo, della propria donna?” (M. Jacobelli). L’eucaristia è un talamo, porta godimento ai sensi: Corpus Christi. E’ il caso di dirlo: “Che corpo!”
D’allora, tutto come allora: nella ristrettezza di un’ostia consacrata – pane elevato all’ennesima potenza – è registrato l’indirizzo di casa del Cielo. D’allora, pane è la più gentile, la più cordiale delle parole: “Scrivetela sempre con la maiuscola, come fosse il vostro nome” lessi nell’insegna di un caffè russo. “Buono come il pane” sarà, di conseguenza, verifica e identità del cristiano. In barba a quella ciurma di amici del Cristo che, in un meriggio indimenticabile, s’infiammarono d’egoismo: “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo“. Come dire: pancia mia fatti capanna. Eppure il pane, fatti bene i conti, c’era: il Vangelo annota d’averne contato cinque pezzi. L’indispensabile c’era, dunque. Ai discepoli mancava la divisione: ad aggiungere, togliere, raddoppiare erano piccoli geni, a dividere un po’ meno. Lo spiegò loro il Maestro, senza acrimonia alcuna, esattamente sotto lo sguardo di coloro che volevano mandare a casa: il pane, diviso, si moltiplica all’infinito. Fin quasi ad esagerare: “Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste“. Ne avanzarono: nessuno, sopratutto l’ultimo che mise mano nella cesta, dovette sospettare di mangiare degli avanzi.
Per tutti la stessa abbondanza. Sovrabbondanza. L’identico stupore.
Heri, hodie, semper. L’ha condotto per le strade di Roma anche il Papa, lo condurranno tra casa e bottega un’infinità di parroci. Gli getteranno addosso petali di rosa, genufletteranno al passaggio, intoneranno lamenti: la solennità del Corpus Domini è assai viva tra la gente. Parla di un corpo, nell’epoca in cui il corpo è tutto. Di un corpo nato bambino e fattosi uomo con calma: di un corpo carezzato, tormentato, deposto, risorto. Il picco massimo della bellezza lo visse sulla Croce: la dissoluzione divenne delirio, riverenza, eccitazione. Ecce homo!
Sfigurato, si son voltati tutti a contemplarlo: fu l’attimo in cui iniziò a brillare la bellezza. Una festa insensata, oggi: il massimo della bellezza corporea è un corpo senza più bellezza. La festa più azzeccata, oggi: non c’è bellezza senza divisione. Che è sempre sofferenza, strappi, rammendi: risurrezione. In un’ostia consacrata alzata al Cielo, giace tutt’oggi l’infinito: il tutto nel frammento, Dio nell’uomo. La salvezza in una briciola di pane: spezzarci per riprodurci. Forse per questo la mia nonna, figlia di un casato povero, era solita insistere: “Non si gioca col pane, bambini”. Dal pane al Pane: la sua fede stava tutta lì.