“Com’è la presenza dell’induismo in Spagna?”, mi chiede Ashok Kumar, un giovane curioso con una formazione universitaria che mi ha accompagnato per diversi giorni attraverso i villaggi e le colline del distretto di Kandhamal, nello stato dell’Orissa. La sua domanda non è strana. Un sesto della popolazione mondiale, infatti, è induista. E all’interno di un Paese come l’India, chiamato a essere protagonista del XXI secolo, si è sviluppata una teologia politica inquietante. 



Chi ha detto che questo secolo era secolarizzato? Una certa prospettiva occidentale distorce la realtà. Siamo in tempi molto religiosi, con religioni come quelle esistenti prima dell’avvento del cristianesimo: credenze che sacralizzano la politica. La globalizzazione postmoderna dei mercati e della tecnologia non è laica in gran parte del mondo. 



Ashok non può immaginare, nemmeno lontanamente, che l’induismo è marginale in Europa. È cresciuto in una cultura e in un Paese dove gli dei sono ovunque. In ogni angolo c’è un tempio: qui un albero a cui si deve culto, là una pietra dipinta di color zafferano che è adorata con devozione. Il vecchio politeismo viene utilizzato dal nazionalismo promosso dal movimento Hindutva. Ashok abbassa la voce quando parla di certe cose per le strade segnate con bandiere arancioni, segno che la zona è controllata da seguaci dell’induismo politico.

L’India con 1,2 miliardi di abitanti, la più grande democrazia del pianeta, che compete con la Cina e l’ha superata su molti fronti (popolazione, istruzione), il Paese che ha dentro molti universi, supera gli ostacoli e si sente orgogliosa, soprattutto grazie a un’ideologia che anche in questo caso si è appropriata dell’esperienza religiosa. “Sono Hindi, anche tu sei hindi, tutti siamo hindi”, mi ha detto un paio di giorni fa un giovane amichevole in uno dei quartieri più poveri di Delhi. “No, io non sono un hindi”, gli ho risposto con una faccia seria. Posso apprezzare lo yoga, cercare di capire una religione come la sua, ma non sono decisamente hindi. 



Quel ragazzo simpatico, dal sorriso franco, sa che essere hindi vuole dire essere parte di un orgoglio basato sulla dialettica del nemico. Il movimento Hindutva, con il suo braccio politico (Bjp) al potere, considera necessario controllare le istituzioni, prendere i posti chiave nelle università, mantenere in vigore le leggi anti-conversione affinché il cristianesimo non possa essere manifestato pubblicamente. Quando ce n’è stato bisogno ha fatto ricorso alla violenza, come nel caso del cosiddetto genocidio cristiano di Kandhamal del 2008. È necessario imporre il “ritorno a casa”: tutti gli indiani devono necessariamente essere indù.

Modi non è solo il leader apparentemente simpatico che fa yoga e cerca investimenti internazionali. Modi è l’uomo che mantiene in vigore una doppia discriminazione degli intoccabili che si convertono al cristianesimo. L’80% della minoranza cristiana appartiene ai “senza casta”, che si sono convertiti cercando una libertà che non avevano nella vecchia religione. Ma così facendo hanno perso il sostegno che il Governo dà a coloro che rimangono indù.

È una sorta di peccato originale. Gandhi, per promuovere l’indipendenza, rielaborò alcuni dei tratti distintivi della vecchia religione (il rispetto per le vacche, la dieta vegetariana). Ora che il mercato sembra aver unificato il mondo, anche in India si ricorre alla consueta formula per costruire un’identità semplice basata sulla stigmatizzazione dell’altro. In questo caso il movimento Hindutva dice ai suoi seguaci che la loro apparente egemonia è falsa, che l’India è minacciata dagli “stranieri”: i musulmani e i cristiani. Non conta che i musulmani abbiano forgiato gran parte della storia del Paese e che i cristiani siano arrivati probabilmente diciotto secoli fa attraverso le missioni delle Chiese dell’Iraq.

Aliya Nayak è un uomo di mezza età. Cammina scalzo e a torso nudo per le strade di Barokhoma, una piccola città nel Kandhamal. Mi racconta che è sempre più difficile celebrare il Natale, perché i seguaci di Hindutva cercano sempre di impedirlo. Aliya certamente non sa che la sua tenacia nel celebrare l’Incarnazione è la miglior garanzia che il futuro dell’India possa essere laico. Non importa che lo sappia. Ciò che conta è quel che ritiene decisivo per la sua vita. La cosa importante è che noi ne siamo testimoni.