La scorsa settimana tutti gli europeisti hanno tirato un sospiro di sollievo dopo aver saputo i risultati delle elezioni presidenziali in Austria, che hanno visto perdere Norbert Hofer. Se il 23 giugno verranno sconfitti anche i sostenitori del Brexit, verrà messa fine al populismo che minaccia la stessa essenza dell’Ue. Sarebbe un lieto fine, un po’ troppo ottimista. Hofer, infatti, è stato sconfitto solamente di 30.000 voti e nel 2018 l’Austria tornerà al voto, questa volta per rinnovare il Parlamento. Inoltre, nel 2017 ci saranno le elezioni in Francia e il Front Nationale sembra già pronto alla sfida. L’onda è così grande e profonda per pensare che le vittorie parziali dell’europeismo e del costituzionalismo possano essere una diga adeguata.
Il risultato delle elezioni in Austria contiene una lezione particolarmente utile per la Spagna, che dovrà presto tornare alle urne, e per il resto d’Europa. In Austria c’erano tre condizioni che chiunque avrebbe considerato eccellenti perché il populismo non prosperasse. La prima è una storia che avrebbe dovuto fungere da “vaccino”. Il Fpo flirta con il nazismo. Il partito ha come simbolo, usato spesso dai suoi leader, un fiordaliso, lo stesso fiore usato dai gerarchi nazisti austriaci negli anni ’30. Hitler entrò a Vienna acclamato dalla popolazione: le sofferenze e le umiliazioni dopo la Prima guerra mondiale provocarono in molti un’attrazione fatale verso il totalitarismo. Chiunque avrebbe pensato che la memoria del grave errore del passato avrebbe evitato quello del presente. Tuttavia la memoria non c’è più, c’è solo un ricordo inefficace.
Nemmeno quello che è successo solamente 14 anni fa (la seconda condizione) è servito ad allontanare gli austriaci dall’abisso. Il Fpo è già stato al potere, gli austriaci conoscono già le conseguenze che implica l’avere i populisti al governo. Nel 1999 il partito, con il 27% dei voti, ha governato con i democristiani. Si andò però a elezioni anticipate perché l’alleanza non durò. Il defunto Jorg Haider, fondatore del partito, fu anche Governatore della Carinzia.
L’Austria, d’altra parte, è uno dei paesi (a differenza di Spagna, Francia e Regno Unito) in cui la “grande coalizione” ha funzionato nel corso degli anni (terza condizione). Popolari e socialisti hanno collaborato in molte forme, ma nessuno dei loro candidati è arrivato al secondo turno delle presidenziali: il rifiuto della “vecchia politica” è stato netto.
La lezione austriaca si potrebbe sintetizzare così: né la memoria, che non è più memoria, né l’accordo tra i partiti, né gli errori del populismo sono serviti a fermare l’avanzata delle forze che incarnano la dialettica del nemico. In Austria il nemico è il rifugiato, altrove è il capitalista. La marea è alta, non bisogna disprezzare qualunque tipo di diga provvisoria, ma il realismo richiede di provare a capire a cosa ci troviamo di fronte.
Un indizio può essere trovato nella recente intervista che il gesuita Jacques Servais ha fatto a Benedetto XVI in occasione dell’Anno della Misericordia. Tra le risposte di Ratzinger ci sono affermazioni che non possono essere relegate all’ambito spirituale, perché offrono una lettura del momento storico che stiamo attraversando con chiare implicazioni sociali e politiche. Il Papa emerito segnala che la preoccupazione di giustificarsi davanti a Dio è sparita nell’uomo del XXI secolo: è Dio che deve giustificarsi davanti a un uomo ferito. La posizione di fronte al Mistero spiega quella che si ha davanti alla realtà. Anche l’esistenza dell’altro (straniero o connazionale di destra o di sinistra) non è giustificata: è un nemico. Torniamo così alle guerre infinite: io sono sempre la vittima innocente, l’altro il colpevole del conflitto. La relazione con colui-che-non-sono-io o coloro-che-non-sono-noi ha solamente la funzione di espiare la colpa che è all’origine dell’ingiustizia sofferta (stranieri che mi tolgono il lavoro, neoliberali che per avidità hanno applicato tagli insopportabili, la sinistra che turba l’ordine e i valori essenziali).
Questa dialettica, che è sempre stata presente come possibilità nella storia, si vince solamente con le esperienze capaci di portare alla luce l’efficacia che ha, in termini di costruzione sociale, la dialettica dell’incontro. Esperienze in cui si possa riconoscere che l’incontro con l’altro è condizione indispensabile perché la verità di me stesso, che è sempre relazione, si mostri.
La sfida è decisiva per la presenza sociale e politica dei cristiani. Una presenza focalizzata a erigere dighe già superate non porta alcuna novità e rappresenta una zavorra.