Come è stato osservato in questi giorni, non è possibile dare un’interpretazione univoca, solamente nazionale, ai risultati delle ultime amministrative. Quello a cui stiamo assistendo è uno scenario composto da situazioni diverse con interpreti diversi. A Napoli, l’ex magistrato alla ricerca di protagonismo che è diventato sindaco, dopo essere riuscito a scontentare tutti, si è reinventato “Masaniello” presentandosi come la vittima che, insieme ai suoi cittadini, è perseguitato dai potenti e dai poteri forti. Nel deserto di alternative credibili, la maggioranza dei napoletani lo segue. E’ qualcosa che rappresenta un’Italia in pieno sbandamento, al limite del masochismo. Un fatto che si è visto anche a Roma, dove una partitocrazia affaristica e ideologica della nuova Repubblica è riuscita a mostrare il peggio di sé negli ultimi governi della città. Così, una pentastellata, carina ma senza grandi meriti riesce a spopolare, complice un centrodestra votato al suicidio.
A questo panorama si aggiunge quello di città ben amministrate, dove le votazioni non hanno rappresentato grandi scossoni. E’ il caso di Cagliari e Rimini, e, a meno di sorprese nei ballottaggi, di Bologna e Torino. Nulla di nuovo sotto il sole. C’è il caso poi di cittadine come Busto Arsizio, in cui personaggi del mondo del lavoro stimati in città si candidano a sindaco e stravincono. Un bel segnale questo del fatto che chi vuole cambiamenti non si esprime solo protestando, ma anche lavorando, affinando competenze e promuovendo nuova volontà di iniziativa.
Milano, tra queste città, è l’esempio più importante. Qui, i due candidati che si sono confrontati per i due opposti schieramenti di centrodestra e centrosinistra, hanno fatto una campagna elettorale reale, dove hanno parlato della città, dei suoi problemi e delle soluzioni possibili. Lo hanno fatto in modo approfondito e con toni mai esacerbati. Le differenze culturali e politiche si sono viste con chiarezza: Milano deve essere “densificata” o sviluppata nell’hinterland? In quale modo deve aprirsi all’integrazione? E fino a che punto deve farsi carico del problema delle sue periferie, o puntare sul rilancio del suo ceto medio?
Su alcune importanti linee, come il ruolo di protagonista mondiale della città o la necessità di un partenariato pubblico-privato nella gestione del welfare, Giuseppe Sala e Stefano Parisi concordano. Su altri aspetti, come l’enfasi sulla sicurezza o l’accoglienza agli immigrati, un po’ meno. Ma la cosa interessante è che la narrazione nazionale dei loro partiti, è rimasta fuori, non solo perché i loro leader non sono intervenuti, ma anche perché sia Sala che Parisi hanno preso le distanze dalle frange più estreme delle loro coalizioni.
I milanesi sembrano comprendere e apprezzare i tentativi e si dividono quasi equamente tra i due candidati. Chi ha votato, non lo ha fatto con il naso turato e i tanti che non si sono recati alle urne pare abbiano più che altro espresso una preferenza per la gita fuori porta, anziché una protesta anti-sistema. Anche vista più da vicino, la scelta delle preferenze a Milano è interessante.
Ad esempio, il risultato del M5S, rappresentato peraltro da una persona preparata, è stato molto più modesto che altrove. In sintesi, i milanesi si riconoscono in posizioni moderate e rifiutano istanze xenofobe, estranee a una città che continua ad essere capace di integrare chi viene da fuori e vuole lavorare. E non sono affatto attirati dall’anti-politica.
Anche il discreto successo delle diverse liste civiche può significare che si ricomincia a pensare che di buona politica ci sia bisogno. Da questo punto di vista è interessante il fatto che siano stati scelti i politici più esperti a discapito dei neofiti che si inventato salvatori della patria, senza avere alcuna competenza specifica.
Almeno a Milano la retorica della società civile che sostituisce i politici fannulloni o corrotti non tiene. E per la stessa ragione, probabilmente, i cittadini hanno privilegiato candidati meno in vista, spesso giovani, che hanno lavorato con grande professionalità in consigli comunali, a chi ha pensato di usare la sua notorietà di politico nazionale per portare voti al suo partito e poi tornare a Roma, come se il consenso offerto dagli elettori non significasse nulla.
Morale: quello che sta avvenendo a Milano non è la rinascita di un partito “pigliatutto”, non è una spinta centrifuga verso Roma e nemmeno una protesta di pancia. Al contrario, può essere il re-inizio della politica fatta da persone competenti che si interessano dei problemi dei cittadini e di questi discutono e su questi si confrontano, emarginando le forzature estremiste fini a se stesse. E’ una speranza.