In Spagna comincia la campagna elettorale. Anche per la comunità cattolica che, in quanto comunità, è un fattore della vita politica? Qual è la posizione più opportuna per questa realtà sui generis? La risposta non è semplice e sicuramente resta in buona parte aperta.
Il Presidente della Conferenza episcopale spagnola (Cee), monsignor Ricardo Blázquez, in una recente intervista ha detto che la Spagna “si trova a un bivio storico”. Per questo è necessario mantenersi nel sentiero costituzionale, superare “progetti ideologizzati”. Già in un’altra occasione Blázquez aveva segnalato un confronto in atto che risveglia due o più anime spagnole. Il Presidente della Cee criticava inoltre le posizioni anticlericali delle giunte comunali dove Podemos è al potere. Senza menzionare la formazione populista, aveva detto che non si vedono progressi nelle istituzioni.
Se il momento è così “grave” non converrebbe che i leader della comunità cristiana e le sue istituzioni si pronunciassero in modo più diretto per fermare la minaccia del populismo? Non bisognerebbe stabilire almeno alcuni criteri chiari per orientare il voto?
Il Concilio Vaticano II e la sua corretta assimilazione, ancora in sospeso come ha segnalato il cardinal Sebastián, aiutano a fare una distinzione tra la comunità cristiana, soggetto politico in senso lato, i politici cristiani e le scelte che prendono i cristiani in politica. Alla luce del Vaticano II, della storia spagnola degli ultimi due secoli e delle circostanze attuali si può capire l’opportunità di non dare indicazioni di voto.
I pastori della Chiesa nell’indicare che in Spagna manca dialogo, capacità di superare i progetti ideologici o di apprezzamento per gli altri, non stanno compiendo una “fuga” dalla politica, né necessariamente consacrando una forma di dualismo che elimina la fede dalla vita pubblica. Segnalare le tendenze di fondo esistenti non rappresenta una fuga dalla realtà, ma offre uno sguardo più profondo. Sguardo da cui occorrerà trarre le conseguenze contingenti a un livello più concreto della politica che non è proprio della comunità cristiana intensa nel suo insieme. Senza questo sguardo più ampio non c’è un apporto decisivo.
C’è una logica preoccupazione per la libertà. La libertà della Chiesa – esercitata a beneficio di tutti – è, di fatto, il grande criterio politico. Ma questa libertà non è limitata solamente esternamente, ma si restringe anche con alcune alleanze che sono state fatte nel corso della storia. Alleanze che rappresentano limitazioni per la cattolicità propria della missione ecclesiale: essere testimoni per tutti della novità dell’avvenimento cristiano. Abbiamo sperimentato negli ultimi secoli e negli ultimi decenni quanto si può perdere con delle alleanze. “L’occidentalismo cristiano” del secondo dopoguerra – resuscitato dai teocon statunitensi dell’epoca di Bush -, il “terzomondismo cristiano” della decolonizzazione degli anni ’70, alcune forme della Teologia della liberazione o certe teologie anti-casta dell’India hanno finito per essere tutte forme di teologia politica.
Sono tutti abbracci dell’orso, portati avanti in buona fede in nome dell’urgenza e delle necessarie mediazioni, che hanno portato la comunità cristiana a schierarsi da una parte, facendole perdere la sua libertà essenziale: la possibilità di essere con tutti e per tutti. Si perde molto più di quel che si guadagna con questo tipo di alleanze.
Sarebbe assurdo che la difesa delle opere cristiane obbligasse a rinunciare al diritto e al dovere di cattolicità. Non siamo negli anni del dopoguerra europeo in cui sud dell’Europa era minacciato dal comunismo. Non siamo nell’Europa degli anni ’90. Forse allora il partito unico e il voto unico erano necessari, ma ora le circostanze sono cambiate, ed è cambiata la coscienza che la comunità cristiana ha del suo compito.
Per fortuna, soprattutto in Spagna, si è imparato molto da quando Pio IX nella metà del XIX secolo, colpito da un liberalismo poco liberale e molto anticlericale, ha adottato una posizione assolutamente difensiva di fronte alla modernità Dalla metà del XVIII fino a buona parte del XX secolo è difficile trovare una figura cattolica nella penisola iberica capace di valorizzare l’Illuminismo e le sue conseguenze politiche. Solamente Jovellanos sembra difendere la necessità di “contrapporre il solido e vero Illuminismo di fronte a quello falso e apparente”. Dopo la Guerra d’indipendenza nei primi anni del XIX secolo, tutte quelle successive contro il liberalismo hanno avuto una sfumatura di guerra santa. Durante i 150 anni in cui è stata forgiata la Spagna contemporanea si è cercato di difendere i “diritti della verità” in opposizione al liberalismo, attraverso uno status giuridico o politico. Per questo è così importante “l’onda lunga” che ha avuto inizio con la riconciliazione degli anni ’60 e il Concilio Vaticano II. Se c’è un Paese in cui il la “Dignatis Humanae”, il documento sulla libertà religiosa, ha un significato speciale è la Spagna. L’Illuminismo non è più il nemico. La modernità ferita, con le sue perplessità, invita la Chiesa a ritornare a ciò che le è proprio in un contesto di pluralismo e di assoluta fiducia nell’unico tribunale decisivo: la libertà di ogni persona.
Una volta raggiunta la Transizione, con il Concilio Vaticano II appena svoltosi, il cardinale Tarancón si oppone alla formazione di un partito cattolico allora possibile. Il voto cattolico è stato diviso da allora tra le formazioni di sinistra e di destra. Si può interpretare quella scelta come un segno di debolezza, come un trionfo di un certo cattolicesimo tecnocratico, progressista, che chiude la sua esperienza in sagrestia. Forse è stato anche così. Ma questo stesso gesto può essere interpretato oggi come l’espressione di un desiderio di maggior libertà della comunità cristiana. Una comunità che – senza rinunciare in alcun modo alla presenza sociale, alla sua natura di comunità politica intesa in un senso ampio – si esprime con il giudizio e la testimonianza di una società in cui l’altro può non essere nemico; si esprime con voti differenti, con politici in formazioni diverse e con opere che maturano e che si rendono meno dipendenti dai vari partiti.