Massimo Bottura, il cuoco che martedì a New York è stato proclamato miglior cuoco del mondo (o meglio, titolare del miglior ristorante del mondo, l’Osteria Francescana di Modena) è un fenomeno che merita di essere scandagliato. Quella del cuoco star è una figura oggi persino troppo inflazionata: personaggi che ormai in cucina passano poco tempo, visto il tanto tempo che dedicano alle pubbliche relazioni, alla tv, ai libri, alle interviste e a ogni possibile occasione di comunicazione. Anche Bottura è un cuoco star, ma lo è a modo suo. Innanzitutto ha fatto la scelta di evitare la tv (ha ceduto solo a Netflix per la serie Chef’s Table, ma si tratta di un documentario su di lui) e di tenersi alla larga dai vari talent show che regalano grande popolarità e garantiscono profili da guru dei fornelli. Bottura naturalmente è uno molto abile nella comunicazione, ma ha voluto in questo seguire una strada tutta sua. 

Bottura è uno chef che tanto in cucina quanto nelle scelte extra cucina ha saputo declinare senza complessi una sua italianità. Modenese, è sempre stato molto legato alla sua terra, come dimostra l’impegno messo in campo dopo il terremoto del 2012 che aveva colpito l’Emilia, per aiutare i produttori di Parmigiano. Quando nel 1995 ha aperto il suo ristorante, ha scelto come location quella che era stata una delle osterie più popolari di Modena, frequentata dall’umanità più varia, malavita e prostitute comprese. Per imparare è andato a scuola dai migliori chef del mondo, compreso quel Ferran Adrià che lo ha introdotto alla “cucina molecolare”. Ma nonostante questa impronta molto “concettuale” la sua cucina, come ha scritto Angela Frenda, food editor del Corriere della Sera, “sa di busta di farina appena aperta. Di risate dei bambini e dita immerse nella crema di cioccolato. Di tortellini rubati. Di stupore davanti a una torta”. L’Osteria Francescana ha una delle cucine più tradizionali che ci siano, garantiscono gli esperti. “Voglio evolvere senza perdere la poesia della tradizione”, è infatti il suo mantra (un concetto reso con parole più evocative da sua moglie Lara Gilmore: “Non lasciare che la tradizione ti leghi. Lascia che ti renda libero”).

Ma c’è un aspetto in cui Bottura si distingue nel panorama dei cuochi star: è quello di avere avuto un pensiero intelligente e innovativo anche nei confronti di chi nel suo ristorante neanche lontanamente potrà mai mettere piede. In occasione di Expo lo chef modenese aveva lanciato l’idea alla Caritas ambrosiana di aprire una mensa “diversa”: innanzitutto bellissima nell’aspetto architettonico e negli arredi, in secondo luogo buonissima perché avrebbe visto impegnati tanti altri cuochi di fama come lui. È nato così il Refettorio Ambrosiano, in zona Greco, periferia nord di Milano. Un’esperienza che è diventata dimostrazione di un’equazione cara a Bottura: oggi si produce cibo abbastanza per sfamare più tutti e di più, ma se ne spreca troppo. E il cibo sprecato coincide con quello che manca a chi ancora soffre la fame. 

Con il Refettorio Bottura ha messo in opera il suo modello, che prevedeva il recupero dei resti dei ristoranti di Expo, dimostrando che con quei resti, cucinati ad arte, si potevano sfamare tante persone che altrimenti avrebbero davanti il piatto vuoto. Insomma un circolo virtuoso ed esemplare, che non poteva non essere replicato. Così è accaduto a Bologna, così sta accadendo a Torino. E soprattutto così accadrà a Rio de Janeiro, dove in una favela, la favela Lapa, in occasione delle olimpiadi, con l’approvazione del Comitato olimpico, verrà aperta una mensa sul modello del Refettorio: secondo quanto si legge sul sito che Bottura ha dedicato per presentare e sostenere queste iniziative (www.foodforsoul.it), verrano distribuiti 20mila pasti giornalieri, grazie alle 12mila tonnellate di surplus di cibo che altrimenti finirebbe nei rifiuti. Un’idea molto francescana, intanto per giocare sul nome del suo fortunato ristorante: un’idea che dimostra grande rispetto per il cibo, dono di Dio, e per gli uomini, figli di Dio.