David Cameron, nel chiedere il referendum sulla Brexit, ha commesso un peccato di essenzialismo, che possiamo anche chiamare fondamentalismo democratico. Qualcosa di poco democratico. Cameron ha commesso un peccato proprio dei populismi, non all’altezza della grande tradizione britannica. Nella sua competizione con l’Ukip ha promesso il referendum, accettando di giocare la partita con le regole stabilite dal populisti. Questo è stato il suo grande errore, che può costare caro al suo partito e l’intero Paese.

Dal Rinascimento noi occidentali viviamo in una perpetua esaltazione della volontà. Ora torna sotto l’equivoca identificazione della democrazia come espressione permanente e sistematica della volontà popolare: la maggioranza espressa in un certo momento pretende di imporsi come unica regola. Secoli di democrazia, britannica come continentale, ci avevano insegnato che la volontà popolare si esprime attraverso molti canali, e che è autolimitata dalla Costituzione (anche quando non è scritta). Ci avevano anche mostrato che è necessario controbilanciare il popolo-voto con il popolo-riflessione e il popolo-giudice. Specie quando l’impero dei media e dei mercati ha creato un nuovo potere. Tutto questo è ciò che il conservatore (per nulla conservatore) Cameron ha chiuso nella Torre di Londra con il referendum sulla Brexit.

Come rispondere a un’eventuale vittoria del Sì alla Brexit? Prima di tutto ci vuole calma. In breve tempo servirebbe una politica monetaria: iniezioni di liquidità per la speculazione che vorrà scommettere contro l’euro e la sterlina. Poi l’Unione dovrà porre i sostenitori della Brexit davanti alle loro contraddizioni. Essi sono uniti solamente dalla volontà di uscire dall’Ue, ma sono molto eterogenei tra loro: ci sono quelli che non vogliono avere nulla a che fare con l’Europa, quelli che vogliono un accordo commerciale, un accordo doganale come quello con la Turchia o uno come quello raggiunto con la Norvegia che le consente di partecipare al mercato comunitario senza aderire ad alcune politiche europee come l’agricoltura, la pesca o la politica estera, senza dimenticare il modello svizzero.

Dunque che propongano quello che vogliono e sarà poi l’Ue a dover fissare alcune nette linee rosse. E qui la linea-Juncker si dimostra intelligente: non si possono avere solo cose buone, rifiutando quelle scomode. Un accordo sul mercato senza libertà di movimento delle persone sarebbe inaccettabile. La Svizzera, che ha 120 accordi settoriali con l’Ue, contribuisce al bilancio comunitario. La Brexit non ha nulla di desiderabile, ma se nell’Ue ci fosse una leadership si avrebbe una buona occasione per rafforzarsi. Si tratterebbe di mostrare al mondo che il progetto di costruzione europeo andrà avanti anche se i britannici avranno deciso di non farne più parte. 

Ci sono molti modi per farlo. Il più semplice ed efficace sarebbe avanzare rapidamente nella governance economica. Finora la Germania, impaurita dalle elezioni dell’anno prossimo, ha rappresentato un freno. Sarebbe quindi un buon momento per togliere questo freno e accelerare sull’Unione bancaria che, come ha segnalato recentemente l’Ocse, è incompleta e necessita di maggior vigilanza delle entità finanziarie e garanzia dei depositi bancari. Si può dar vita al fondo di risoluzione previsto per i fallimenti, che non dovrebbe entrare in vigore prima del 2023. Si può dar seguito alle raccomandazioni del Fmi per ampliare il Piano Juncker di investimenti nel settore pubblico. Si può avanzare nella mutualizzazione del debito o nell’integrazione fiscale. La lista degli obiettivi da raggiungere per costruire un’Europa più federale è lunga.

A mali estremi, estremi rimedi: se il Regno Unito se ne va ci vorrà più Europa. Per questo è necessario che la Germania smetta di pensare in termini nazionali e consenta all’Europa di essere Europa. Non sarà il volontarismo popolare, soggiogato dal populismo, a tirarci fuori da questa situazione. E in Francia l’anno prossimo ci sono le presidenziali.