Un paio di anni fa stavo a un barbecue con la mia famiglia in California. Verso la fine, quando eravamo tutti rilassati, con in mano un bicchiere di buon vino seduti sotto gli alberi, una ex amante di mia sorella — una donna che stimo molto — se ne uscì dicendo: “Ho appena preso un passaporto. Come lesbica sto bene qui in California, ma se la società ci gira contro, voglio avere una via di uscita rapida e pronta”. Questo suo pensiero mi colpì molto e me ne sono ricordato di recente. Sono dovunque vittoriosi, i Lgbt: con il motto “celebrare la diversità” hanno preso il controllo dell’assunzione del personale di tutte le scuole, università e grosse aziende; con l’etichetta “omofobo” hanno fatto zittire sui media chi potrebbe criticare la loro comunità; sono riusciti a far dimenticare alla società il significato stesso del matrimonio, e così via. 

Eppure in quella donna la percezione della realtà era segnata da una profonda insicurezza, se proprio lei progettava un’eventuale fuga dalla “persecuzione”.

Mi ha fatto pensare alla minoranza cristiana in Palestina che, nonostante molti segni di solidarietà da parte del governo, vive nell’insicurezza, pensando che la società potrebbe girarle contro in qualunque momento (come si vede in altri paesi musulmani in questi tempi). Era questo uno dei punti più difficili da comunicare ai giovani musulmani che preparavo al battesimo. Non riuscivano a capire com’era fragile la posizione della comunità cristiana, come una mancanza di prudenza da parte loro avrebbe potuto comportare problemi gravi per tutta la minoranza cristiana. “Ma no! — pensavano — ho vissuto tutta la vita come musulmano in questa società e non c’è pericolo per i cristiani!”. Purtroppo, a volte hanno dovuto imparare la lezione sulla propria pelle, con brutte esperienze. Ma, come con la mia amica lesbica, è veramente difficile per uno che appartiene alla maggioranza capire il senso di insicurezza che soffre la minoranza. 

Tutto questo mi è venuto alla mente guardando le reazioni all’orrendo massacro compiuto nel nome dello stato islamico in un club di gay in Florida, a Orlando. Tutti hanno fortissimamente denunciato questo attentato. Ma nelle parole di oltraggio e di conforto di tanti leader cristiani o conservatori sono mancate espressioni di solidarietà con la comunità Lgbt in quanto tale. Questa omissione è stata subito notata e condannata da tanti progressisti come prova che i cristiani vogliono i gay morti. Anzi, non pochi commentatori hanno accusato i cristiani di aver creato un ambiente ostile che ha incoraggiato il terrorista nella sua opera di carnefice. 

Sbagliano. Ma devo ammettere che conoscere l’immagine di società che il mondo gay desidera e il potere sociale che esso esercita — due fattori, questi, estranei o ostili alla mia identità cristiana —, ha fatto sì che in me venisse a mancare un senso di vera compassione, e di abbraccio, per gli individui colpiti direttamente da quella tragedia. Era come se non volessi cedere loro una parte di me, fosse anche la mia solidarietà e la mia disponibilità a soffrire con loro. Ma capisco che devo crescere. Non si può amare l’altro se non abbracciandolo lì dove sta, non aspettando che sia diverso. Significa — in questo caso — essergli compagno fin dentro la paura e l’insicurezza che prova, anche se le giudico non oggettivamente motivate e reali. Occorre che chiediamo a Dio il dono di soffrire profondamente anche per chi è altro da noi e non ci vuole.