Tre isole nella storia della Chiesa e della sua riaffermazione dell’unità: prima Cuba, poi Lesbos e ora Creta. Dopo i successi dei primi due incontri (tra Francesco e Kirill a Cuba e poi, tra Francesco, Bartolomeo e Hieronymus a Lesbos), non era azzardato sperare in un terzo successo in occasione del tanto a lungo preparato Concilio Panortodosso: cinquant’anni di discussioni e incontri preliminari, dopo che per tutto il XX secolo c’erano stati tentativi infruttuosi e dopo una storia plurisecolare in cui le Chiese ortodosse non erano più riuscite a incontrarsi tutte insieme. E invece il risultato è stato decisamente meno felice; è eccessivo dire che si è arrivati a uno “scisma di fatto” e, con l’aiuto dello Spirito Santo (che tutti sinceramente continuano a invocare), si può sperare che in futuro la situazione potrà essere trasformata in un’occasione di rinascita, anche se per il momento sembra che si sia finiti in un vicolo cieco.
A gennaio di quest’anno si erano decisi la data e il luogo, erano stati resi pubblici i documenti programmatici finali sui temi in discussione, che erano stati “completamente approvati” dalle Chiese che si preparavano a celebrare il Concilio (mentre un documento sul tema del matrimonio che aveva destato la contrarietà della Chiesa georgiana, opposta ai matrimoni misti, era stato eliminato per mantenere l’unanimità); poi, improvvisamente, a partire dai primi di giugno, sono iniziate le defezioni e delle quattordici Chiese che dovevano essere presenti ne sono rimaste dieci: i patriarcati di Costantinopoli, di Alessandria, di Gerusalemme, di Serbia e di Romania, le Chiese di Cipro, di Grecia, di Polonia, di Albania e di Cechia e Slovacchia, mentre hanno dichiarato la loro indisponibilità a presenziare all’assemblea di Creta i patriarcati di Bulgaria, di Antiochia, di Georgia e, da ultimo, quello di Mosca.
Che cosa sia successo e perché è questione molto complessa e ovviamente oggetto di polemiche più o meno accese; qualcuno ha fatto osservare che è come se uno studente si fosse accorto la sera prima dell’esame di non aver letto i testi del programma, qualcun altro ha cercato di spiegare, dando motivazioni non sempre convincenti o stringenti: pare in effetti discutibile rifiutare di partecipare a un incontro così importante per la controversia tra i patriarcati di Antiochia e di Gerusalemme sull’appartenenza canonica del territorio del Qatar, o per la discussione se alla Georgia spetti il sesto o il nono posto nell’ordine di importanza. Altre motivazioni sono state addotte, qualcuna forse più realistica, alcune, spesso, più dolenti: che all’interno di qualche Chiesa ortodossa si fosse sviluppata una forte opposizione alle aperture verso l’esterno; che mal si accordasse l’idea della conciliarità con un presunto “papismo costantinopolitano” o con un “imperialismo greco”; che desse fastidio l’idea di perdere la faccia di fronte alla crescente influenza di Roma; che diverse Chiese mal tollerassero il fatto che nei documenti preparatori (per altro già approvati) si utilizzasse il termine “Chiese” per riferirsi a cattolici e protestanti (da considerarsi invece ancora come eterodossi se non addirittura eretici); e da ultimo che nell’agenda dei lavori potesse essere inserita la questione dell’indipendenza da Mosca della Chiesa ortodossa ucraina (che attualmente dipende appunto dal patriarcato moscovita).
Molto ancora è stato detto ma, al di là di tutto, resta la constatazione dolorosa cui sono giunti anche molti ortodossi russi: l’assenza di una gerarchia unica e, ancor più a fondo, l’assenza di un centro reale di unità, indipendente da interessi particolari (siano essi di onore, etnici, di territorio, di potere, di denaro o altro), rende l’Ortodossia oggi estremamente debole di fronte alle sfide del mondo contemporaneo e soprattutto di fronte alla necessità di testimoniare una prospettiva di vita affascinate e una salvezza efficace.
Che cosa succederà è questione ancor più complessa anche se da una parte e dall’altra si cerca di mantenere molte porte aperte. Nessuno, ovviamente, può sottovalutare la gravità di quanto è successo, ma da più parti si sottolinea che, in fondo, anche in passato, persino dei concili riconosciuti in un secondo tempo ecumenici (come è il caso del Concilio di Calcedonia del 451) inizialmente avevano avuto una partecipazione tutt’altro che universale; altri, pur non condividendo quest’idea e contestando che la riunione di Creta possa essere chiamata “Concilio Panortodosso”, suggeriscono che potrebbe diventare la prima sessione di un futuro Concilio pienamente “Panortodosso”. Ma questo, ovviamente, riguarda il futuro, mentre si spera che le polemiche finiscano in un passato da archiviare. Ben più interessanti appaiono le riflessioni che questi avvenimenti stanno producendo, non solo per l’Ortodossia, ma per tutto il mondo cristiano.
Innanzitutto siamo posti di fronte alla questione di una unità non solo teorica ma reale, nella quale il bisogno dell’altro sia un bisogno anch’esso reale e non determinato soltanto da interessi particolari e contingenti, bensì radicato nel riconoscimento della dignità irriducibile dell’altro, come dello stato strutturale di bisogno della mia persona.
In questo senso, le difficoltà attuali sono un’occasione per un più profondo processo di conversione, un processo, è stato detto, che può avere un suo esempio e una sua arena proprio nel concilio, da concepire non come una parata ecumenica di vertice, ma proprio come un lungo cammino che inizia magari sottotono, ma si sviluppa poi sempre più coscientemente, sotto la pressione dell’umano bisogno di salvezza.
È questa salvezza non creata da mano d’uomo a essere in gioco, ed è dal suo essere un dono di Dio e non un prodotto della genialità umana, giocata e costruita a livello politico (sia pur ecclesiale) e con logiche puramente terrene, che dipende la sua realtà: illudersi che possa consistere negli accordi tra potentati terreni o derivare da interessi comuni è solo uno dei tanti modi di renderla vana.
Nella tradizione filosofico-religiosa russa del XIX-XX secolo si è molto parlato della conciliarità, la sobornost’, come carattere tipico dell’Ortodossia; oggi è esattamente questa sobornost’ che viene minacciata e vanificata o che può essere nuovamente messa in gioco: a patto di capire che essa si basa sull’amore reciproco, che è una cosa un po’ diversa dall’accordo degli interessi (sia pure altissimi e degnissimi), ed esige invece l’osservanza del carattere fondamentale dell’amore cristiano: la disponibilità al sacrificio, innanzitutto al sacrificio del proprio punto di vista.
Dal modo in cui i cristiani prenderanno sul serio questa disponibilità dipende molto dell’effettivo successo del Concilio Panortodosso di Creta e della sua effettiva esemplarità per tutto il mondo contemporaneo.