La “Buona Scuola” varata undici mesi fa dal governo Renzi non è stata ancora digerita da gran parte del mondo dell’istruzione. La riforma contiene timidissimi passi in avanti nell’offrire un po’ di autonomia alla scuola di Stato (ad esempio attraverso la possibilità di reclutamento diretto degli insegnanti da parte dei presidi e la valorizzazione del merito dei docenti) e un po’ di parità in più attraverso modestissime detrazioni per chi manda i figli alla scuola libera. Sappiamo che il processo di riforma di cui ha bisogno la scuola italiana riguarda molti altri aspetti, ma gli elementi appena citati sono decisivi, più di quello che si è portati a credere. E non è difficile constatarlo: basta guardare cosa sta succedendo nel resto del mondo, in quei Paesi cosiddetti sviluppati di cui ci limitiamo spesso a imitare altri aspetti ma, chissà perché, non il cambiamento nel mondo della scuola.

Paesi come il Regno Unito, ad esempio. Lì da alcuni anni sono nate le “free school”, una sorta di “terza via” tra pubblico e privato: scuole pubbliche, ma gestite da privati. Ne esistono anche negli Stati Uniti, si chiamano “charter school” e sono sorte con la stessa esigenza delle “free school” inglesi: elevare la qualità di un sistema educativo, quello statale, che aveva e ha evidenti difficoltà. Ma anche sviluppare progetti educativi innovativi.

Sostanzialmente sono tutte un esempio di autonomia nella gestione economica ed educativa, qualcosa che fa sembrare uomini della preistoria i difensori della “scuola unica”: statale centralista, burocratica, immutabile, e alla fine inefficiente e iniqua verso i meno abbienti, se è vero che ad esempio in Italia genera circa un milione e mezzo di abbandoni all’anno.

Le prime “scuole libere” inglesi, 24 in tutto, sono nate nel 2011. Nel 2015 erano già oltre 400. Qualunque associazione di tipo laico o religioso (con attenzione a monitorare ed escludere impostazioni fondamentaliste), gruppo di famiglie o insegnanti, comunità di quartiere, può aprirne una, dopo aver presentato al ministero dell’istruzione un piano didattico ed economico (rigorosamente non profit) sostenibile per la durata di dieci anni.

Se approvato, il progetto viene finanziato con una quota significativa dallo Stato e in caso di ulteriore bisogno, sostenuto con raccolte fondi. Molte di queste scuole sono, infatti, gratuite, ma a volte si rende necessario il pagamento di una retta, soprattutto per attrarre insegnanti con alto grado di qualifica. Perché rivoluzionari sono anche i criteri di reclutamento: la scuola assume l’insegnante che ritiene più opportuno, quello con il miglior background e le specificità necessarie per il ruolo che dovrà ricoprire, reclutandolo anche tramite un semplice annuncio su giornale. Per queste scuole funziona poi lo stesso severo regime di controllo della qualità che vale per tutto il sistema educativo britannico.

I vantaggi per i singoli cittadini e per il sistema scolastico nel suo complesso sono evidenti.  

Innanzitutto, di fronte a scuole private assai costose come sono quelle inglesi e a una scuola pubblica che arranca difficoltosamente soprattutto nei grandi centri metropolitani, le free school rispondono al bisogno concreto di una educazione di qualità a costi contenuti.

Secondariamente, ne giova moltissimo la possibilità di integrazione di classi sociali ed etnie diverse. In una nazione come il Regno Unito dove le differenze sociali e culturali sono molte, pensare che lo stesso tipo di approccio educativo possa funzionare in un paesino del Nord così come in un quartiere popolare di Londra abitato in prevalenza da immigrati è astratto e ideologico.

Netto è anche il risparmio per le finanze pubbliche. Secondo i dati diffusi dal National Audit Office, l’istituto parlamentare indipendente che valuta la spesa pubblica, il costo medio per l’apertura di una free school è di 6,6 milioni di sterline contro i 25 milioni di una scuola pubblica. A questi dati vanno aggiunti quello dell’Ofsted (l’ufficio responsabile di controllare il livello educativo scolastico) che recentemente ha dichiarato che la qualità offerta dalle scuole libere è tra la più alta del sistema scolastico nazionale e che l’impatto di queste si avverte in modo positivo anche nelle scuole pubbliche che sono nelle vicinanze perché per ragioni di concorrenza sono spinte a migliorarsi.

Senza contare un ultimo particolare: l’aumento dell’offerta di posti di lavoro, specie in aree particolarmente depresse del paese.

Per capire l’aspetto principale di questa rivoluzione paritario-educativa, può aiutare l’esperienza di Matteo Rossetti, un italiano laureato a Oxford, preside di un liceo inglese, che ha aperto una di queste scuole nel 2014, la Thomson House School e vi opera da volontario insieme alla moglie. Rossetti, che sarà ospite del prossimo Meeting di Rimini, ha spiegato in un recente incontro organizzato dall’associazione studentesca Help Point all’Università di Milano Bicocca che “in una scuola concepita come una grande famiglia, l’interesse per il singolo studente è il pilastro fondamentale. Per questo la formazione è individualizzata per ciascun alunno”.

Da queste parole si capisce anche come non siano le riforme, i cambiamenti organizzativi e neanche l’autonomia, di per sé, a garantire che un impegno educativo abbia buon esito.

Esso infatti è sempre imprevedibile come ogni cammino umano. Però anche un rapporto educativo virtuoso avviene in un contesto più o meno facilitante.

E’ davvero difficile immaginare una libertà di educazione analoga anche nel nostro Paese?