Cammina agile in direzione di Gerusalemme l’Uomo che del cammino fece un’identità: “Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé” (Lc 9.51-62). Quando il frutto è maturo, raccoglierlo è gustarne la delizia: lasciarlo ancora un attimo è esporlo al rischio del marcire. Coglierlo in anticipo è morderlo acerbo. Il Dio-in-cammino allunga il passo “mentre stavano compiendosi i giorni”. Ne ha vissuti quasi mille in compagnia dei discepoli, insegnando loro ad inventarsi un percorso nuovo di viaggio dentro il mondo. Ne scelse dodici perché stessero con Lui, magari afferrando qualcosa in più degli altri. All’apice della loro storia, però, mostrarono d’essere tali e quali a tutti gli altri umani: “Si potrebbe raccontare tutto questo come la creazione di un corpo speciale, una legione di valorosi soldati di Cristo, ma Marco non perde occasione di mostrare i discepoli sotto la luce meno lusinghiera possibile (…) Sono ottusi, litigiosi, invidiosi” (E. Carrère). Fino ad invocare lo sterminio per i samaritani: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. A parlare sono gli uomini scelti da Lui, tipica-razza-umana: mica han capito che a governare con la paura sono capaci in tanti. La vera avventura sarà governare con la gioia. Vivere e lasciar vivere, senza mai accettare il sopravvivere. Le mezze-misure saranno di Lucifero.

I Samaritani tengono chiuse le porte al Cristo passeggero. Andare verso Gerusalemme è andare in senso contrario alla navigazione umana, è mettere in conto di rimanere soli, anche nudi sotto il Cielo: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo”. Eppur parte, Cristo: il Vangelo è un libro scritto nei piedi prima ancora che sulla carta, una maggiorazione di vita tutta a scapito della dottrina: con noi o contro di noi. E’ margine di rischio più che certezza di confini. Non “o-io-o-te” bensì “io-e-te, assieme”. Per il Dio tutto-piedi lo straniero è l’unione nella differenza, il tutto per la confidenza degli uomini.

Pretese troppo, forse, il Rabbì da quei cervelli dannatamente casarecci da non capacitarsi che la salvezza fosse per tutti, mica solo per dodici eletti? Poco importa, lo capiranno più avanti: l’importante, per Cristo, è mettersi in cammino “verso un altro villaggio”: ancora perlustrazioni per chi sa perfettamente dove andare. Viaggia in-senso-contrario per insegnare ad andare nella direzione giusta: avanti guardandosi indietro, mai stanchi di capire ciò che già è capitato loro. Assai liberi da lasciar liberi anche quelli che non Gli credono, che mai crederanno in Lui o che, forse, arriveranno un giorno a riconoscergli il merito d’aver azzeccato la direzione migliore. Per questo si volta, li rimprovera: non i samaritani ma i discepoli, quelli che a fatica seppero esporsi alle radiazioni di Dio. Alla traiettoria del suo andare: la Croce, ovverosia la gloria nella miseria, l’onnipotenza nell’impotenza. Il caso serio della fede.

Al fuoco dello sterminio scelse il fuoco della passione testarda e ardita: “Vengo come vostro fratello — ha detto papa Francesco alla terra d’Armenia — animato dal desiderio di vedere i vostri volti, di pregare con voi, di condividere il dono dell’amicizia. Vengo per abbeverarmi alle sorgenti della vostra fede, rocciosa come le vostre famose croci scolpite nella pietra”. Nella terra che fu di Noè, anni addietro imbastirono un genocidio: un milione e mezzo di armeni eliminati dopo essere stati deportati dagli Ottomani. Il diverso: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?”. I discepoli fan fuoco-e-fiamme: Cristo è uomo di taglio-e-cucito. Da una parte l’aratro della separazione, dall’altro l’ago e il filo del rammendo: “So soltanto che da qui passerà, da questa grande stazione dove nessuno è straniero, e un grande cuore ancora batte per segnarci il cammino” (A. Arslan). Per farsi cammino.