Charles Péguy ha meditato spesso la parabola del figliol prodigo, che si trova nel quindicesimo capitolo del vangelo di Luca dopo quelle della pecora smarrita e della moneta perduta, costituendo la “trilogia della misericordia”, a cui spesso siamo richiamati in quest’anno giubilare.
Ne Il Portico del mistero della seconda virtù Péguy si concentra sul fatto che queste tre parabole sono in certo modo l’ultima barriera contro la disperazione; esse infatti documentano che nessun male (né la distrazione sciocca della pecora, né la meccanica ottusità della moneta, né soprattutto la libera volontà del figlio di allontanarsi dal padre) può impedire a Dio di continuare a cercare chi se ne è distaccato. Per il quale, dunque, è sempre possibile la speranza, la “seconda virtù” del titolo. La parabola del Figliol prodigo, scrive Péguy, “ha fatto piangere centinaia di migliaia di uomini, travolti dagli stessi singhiozzi”, perché ha toccato in loro “un punto unico, un punto segreto, un punto misterioso” e vi si è piantata “come un chiodo di tenerezza”. Qual è questo punto? È quello dove si insinuano il dolore, la disperazione, l’inquietudine, le “vergogne del peccato”, il dubbio di essersi perso proprio come uomo; e perciò un punto che non si vuol guardare, come una cicatrice dove “non si deve premere” perché fa male. Proprio lì la parola di speranza della parabola non teme di addentrarsi – “come una piccola suora dei poveri che non ha paura di maneggiare un malato” – e lanciare la propria sfida: “Dovunque andrai, io andrò”. Essa è come “un cane maltrattato, che torna sempre” perché deve insegnarci “che non tutto è perduto” e proprio per questo ascoltarla “in fondo alla nostra vergogna e al nostro peccato, ci rassicura un po’”.
Nella incompiuta Ballata del cuore Péguy descrive anzitutto la situazione del figlio — ognuno di noi “cattivo cristiano” — che ha dilapidato le sostanze e deve — suprema disumanizzazione — disputare il cibo ai maiali: “Mangi senza forchetta /con le dita / senza cucchiaio né piatto / quello che devi // frugare nella spazzatura / dei tuoi porci”. Quindi s’alza la voce che invita il ragazzo a fare fagotto, a lasciare la “topaia” in cui si trova e incamminarsi “sopraffatto dalla fatica / pieno di polvere, / aggrovigliato e intricato / infangato di terra” verso la casa paterna che “è là che ti guarda / e che ti custodisce”. Arrivato a casa c’è un sorprendente scatto narrativo, che purtroppo Péguy non ha sviluppato: prende la parola il Padre che, prima di tutto, dice la sua contentezza per il ritorno di “chi si era perduto”: “Venuto da mille luoghi / per rivedermi / bambino sono felice”.
La quartina è monca dell’ultimo verso e la successiva introduce uno straordinario ribaltamento della logica che ci attenderemmo; il Padre infatti prosegue: “Sono io che ho sbagliato / o mio bambino”. Forse Péguy si è reso conto dell’abisso che aveva intuito – Dio che “si giustifica” per usare una recente espressione di Benedetto XVI – da ritrarsi lasciandoci solo qualche verso balbettato: “Sono io che ti ho abbandonato. Sono io che ho peccato. Perdonami”. E poi concludere con l’abbraccio: “Respingi i singhiozzi / e le inquietudini / le grida e questo fiume / d’ardenti lacrime. // Infine tu mi dirai / buonasera questa sera / Bambino vieni nelle mie braccia / guarda il mio sguardo”.
Nel Mistero dei santi Innocenti la parabola del Figliol prodigo non è tematizzata. Ad un certo punto, però, Dio padre dice che Gesù “ha saputo sbrigarsela molto bene per legare le braccia della mia giustizia e per slegare le braccia della mia misericordia”. Come? Insegnando agli uomini il Padre nostro e quindi costringendo lui, il giusto giudice, a giudicare gli uomini come un padre fa coi suoi bambini. E aggiunge: “Si sa bene come il padre ha giudicato il figlio che se n’era andato e che è ritornato”. Ma non dice semplicemente che lo ha perdonato; ben più acutamente e misteriosamente spiega: “Ed è ancora il padre quello che piange di più”.