Un inno delle monache trappiste di Vitorchiano inizia con queste parole: “L’aurora risplende di luce, il cielo si veste di canti”. Si usa di domenica e in tutto il periodo pasquale perché lo splendore evocato è quello di Cristo risorto e il cielo che per mantello prende, oltre alle voci monastiche, il canoro volo degli uccelli è tipico della primavera, stagione in cui, appunto cade la Pasqua. È meravigliosa l’immagine di un cielo che al mattino, svegliandosi dal buio notturno, si mette addosso il canto melodioso degli uccelli che, come dice lo spettacolare incipit del XXIII canto del Paradiso dantesco, se ne stavano “in su aperta frasca” intenti proprio al sorgere del sole per poter vedere i piccoli e cominciare la “gradita” fatica di trovare loro il cibo.
Certo, per chi vive in città è ben difficile avere l’esperienza di un simile risveglio accompagnato da canti; più facilmente i primi rumori che gli si presentano alla coscienza sono motori d’auto, frenate stridenti, magari sirene o sferragliare di tram e, inoltre, quell’indistinto continuo borbottio che sembra la voce stessa – mai interrotta – della città. Un rumore sordo, sotterraneo, che sbuca dai tombini ma non riesce ad alzarsi libero verso il cielo, che sia quello uggioso dell’inverno o quello limpido della primavera.
Nella zona dove abito io – ma credo che il fenomeno interessi altri quartieri milanesi – ai suoni mattutini appena ricordati si è aggiunto, di recente, il forte verso dell’uccello che meno poetico è difficile trovarne: il kraa kraa kraa intermittente e insistente delle cornacchie. Non è un canto, è un richiamo cupo, quasi lugubre. Dicono che le cornacchie siano tornate in città perché trovano alimento nei numerosi residui di spazzatura e infatti ne vedo sempre una che tutte le mattine se ne sta appollaiata sul balcone del palazzo dirimpetto dove i residenti tengono i sacchi aperti della raccolta differenziata. E poi sono uccelli sgraziati, che a volte attaccano anche i merli o i piccioni, e se ne stanno su nei punti più alti dei tetti e lanciano imperterriti il loro kraa kraa kraa sulla vita cittadina ai loro piedi, come se si trattasse di un’immensa discarica di pattume. Non voglio dire che le cornacchie facciano paura (anche se nel suo celebre film Gli uccelli Alfred Hitchcock le ha usate assieme a corvi e gabbiani come killer), ma certamente il loro verso non è un gaio inno di gioia alla città, né un festoso indumento per questo cielo d’estate; fa più pensare ad un disfacimento.
Per fortuna che verso sera le cornacchie sembrano ritirarsi nei loro rifugi abbastanza presto e allora il cielo ritorna abitato, per esempio, da rondini e storni, che non hanno un canto particolarmente melodioso, ma di certo non sembrano considerare le nostre difficili vite cittadine come spazzatura.