Durante gli anni in cui lavoravo per il Patriarcato latino di Gerusalemme abitavo in una camera che dava sul muro della città vecchia, e nei mesi caldi tenevo aperto le finestre di notte per fa circolare l’aria. Una notte, mentre ancora leggevo in attesa di prendere sonno, sentii nei pressi del muro un gran rumore, seguìto, dopo un momento di silenzio, da spari e grida di uomini e donne agonizzanti. Un gruppo di giovani soldati israeliani che si trovavano fuori della città vecchia città era stato investito da una macchina lanciata a tutta velocità da un giovane palestinese. Ci furono 17 feriti gravi, l’autista venne ucciso a colpi d’arma da fuoco, e non si riuscì mai a sapere se aveva perso il controllo del mezzo o se si fosse trattato di un attacco, anche se l’apparenza favoriva la seconda ipotesi.
Quella notte non riuscii a prendere sonno, perché quelle grida disperate non mi lasciavano. Anzi, fino ad oggi non mi hanno mai lasciato.
Fu come quando una mattina, a Betlemme, sentii spari e grida. Una pattuglia di soldati israeliani, intervenuti in pieno giorno per arrestare un palestinese (normalmente un’operazione che si fa di notte), aprì il fuoco su un gruppo di bambini uccidendo, fra gli altri, una giovane donna incinta.
Allora mi sembrava impossibile riuscire a vivere quando cose del genere possono accadere da un momento all’altro, fuori del nostro controllo. Ero soprattutto convinto che sarebbe stato giusto far cessare tutto questo prima di poter tornare, finalmente, a vivere come se nulla fosse accaduto. Il pensiero che ci fossero persone in agguato per fare del male mi risultava insopportabile.
Tutto questo mi è tornato improvviso alla mente alla notizia dell’orrenda carneficina che si è verificata l’altra sera in Francia, quando un musulmano alla guida di un Tir ha percorso due chilometri falciando la folla e mietendo 84 vite, al grido di “Allahu akbar”.
Come accettare di vivere in un mondo così?
In Palestina ci ho messo anni per riuscire a non essere determinato da una reazione sdegnata e violenta davanti all’assetto sociale e politico. Ho rischiato di perdere anche rapporti preziosi con persone che hanno cercato di farmi ragionare invece di reagire. Se la nostra vita consiste nel sistemare le cose per arroccarsi un ambiente tranquillo e piacevole nel quale passare i nostri anni terreni, allora tutto questo è un guasto atroce, un’obiezione insormontabile al progetto del nostro vivere.
Quello che mi ha aiutato a non vivere in modo reattivo, ma a cominciare a proporre a me stesso, ai miei amici e ai miei parrocchiani palestinesi un nuovo modo di essere protagonista sono state tre cose.
La prima è non smettere di pregare, cioè lasciar parlare in me un orizzonte più vasto, una Compagnia non determinata dai limiti del mondo, un Destino d’amore che niente e nessuno può distruggere. La seconda è stata una settimana di colloquio interiore con il Signore sulla mia vita, un confronto che mi ha lasciato senza obiezioni per ricominciare dalla realtà, per quanto dolorosa. E la terza è stata la visita di Papa Benedetto XVI in Palestina. La gioia di stare con la gente, a Betlemme, a messa col Papa ha spazzato via ogni paura e improvvisamente la vita si è dimostrata umana, possibile, una promessa vera di bene già da ora. La testimonianza di papa Benedetto ci faceva capire che a noi toccava un protagonismo dettato non dalla reazione, ma dall’accorgerci di avere già il dono della pace fra le mani, in quanto eravamo nelle mani del Signore vincitore sul peccato e sulla morte. La pace non era un fine da raggiungere, ma un dono da ricevere e condividere. Perdere gli amici a causa della violenza, perdere i parenti a causa dell’ingiustizia, perdere i figli per la furia della menzogna in cui siamo immersi, vedere distrutte le cose che abbiamo amato a causa dell’incompetenza di chi ci governa e ha la responsabilità di creare la nostra sicurezza, dover fare conti con un odio ideologico implacabile, tutto questo non è una sconfitta, ma la condizione in cui far emergere una vittoria già nostra.
Esplode la distruzione, ma Lui continua a edificarci per far conoscere a tutti, qui, un altro mondo.