La tropicalizzazione del nostro clima ci sta abituando a giornate estive contrassegnate da improvvisi e violenti temporali. Esco di casa tranquillo e vestito leggero perché non c’è una nuvola in cielo e fa caldo, e al ritorno sono costretto a ripararmi in un qualche androne da uno scroscio che ricorda il diluvio universale e, quando è passato lasciando per strada una fiumana d’acqua, riprendo il cammino riparandomi dal sorprendente vento freddo che intanto s’è alzato.
Nel suo terzo frammento lirico, Clemente Rebora descrive un temporale che “dall’intensa nuvolaglia” si scatena sui campi come un cavaliere in battaglia. Per chi abita in campagna il temporale estivo è parte di un accettato ciclo naturale: temuto perché potrebbe danneggiare i raccolti, ma anche desiderato perché scioglie il nodo dell’arsura, rinfresca l’aria e irriga le zolle assetate. Quando invece, continua Rebora, il “turbine” temporalesco “urta una città” accade qualcosa di innaturale: l’andirivieni caotico, le numerose “faccende” che tormentosamente occupano i cittadini, tutto il loro daffare si trasformano in un acuto senso di vuoto minacciato dalla violenza cieca degli elementi; impattando col conglomerato cittadino, il temporale produce un malessere indefinito che — giusto in rima con “città” — il poeta chiama “ansietà”. Con la formidabile pregnanza di una sola parola (non per nulla la riuserà anche Montale) il giovane Rebora riesce a dire la condizione di un’intera umanità: la sua che si avvicinava al baratro della prima guerra mondiale e la nostra che prende un altro terribile colpo sentendo quello che è successo a Nizza; l’ansietà di chi si sente minacciato.
Nel primo verso del LXIX frammento lirico Rebora ci presenta una “pioggia feroce”. Anche questa cade in città e, simultaneamente, lava le “lordure” delle strade sporche e le “menzogne” nonché le “rogne” dei “morti viventi”, delle “anime impure” che quella città abitano. Agli occhi del poeta la città — per lui la Milano di inizio novecento spavaldamente lanciata nell’opera di industrializzazione — è il luogo dove trionfano i falsi valori del guadagno e del piacere, dove “scintilla il similoro”. Per coloro che ne sono abbagliati l’improvviso temporale è fonte di smarrimento, di sconcertante non saper cosa fare, è un intoppo insormontabile che mette a nudo la vacuità delle loro vite, ridotte a “rivoli di spurghi”.
Ma per alcuni la pioggia che gratta via, come una “grondante striglia”, le scorie superflue è sentita, proprio per questo, “redentrice adorata”. Essa è un salutare lavacro perché mette a nudo ciò che vale: “l’oro e la gloria / che non si vendon né recan piacere”. Tra i cittadini travolti dall’ansietà perché vedono cadere i loro idoletti in similoro ce ne sono altri — “noi” dice Rebora — che cercano il vero “oro” di un ideale che non è mercificabile — non si vende — né si può confondere col piacere a buon mercato. In una lettera ad Angelo Monteverdi del 28 marzo 1913 (pochi giorni prima di quella in cui manda all’amico il primo abbozzo di questo frammento, definendolo “fra i miei più profondi”) Rebora chiama questo ideale “aspirazione all’eterno”, unico antidoto all’ansietà.