Una sera, a Gerusalemme, mi trovavo in un pub per una birra dopo una lunga passeggiata e attaccai bottone con un uomo, un musicista, che cominciò a raccontarmi dei suoi anni negli States passati suonando tra Las Vegas e Los Angeles. Ad un certo punto disse di come, talvolta, entrava in una chiesa per stare solo e in silenzio col mistero e dei diversi pensieri che, in quella situazione, gli venivano sulle diverse religioni. “Adesso, però, sono sionista” dichiarò alla fine. “Non sapevo che il sionismo fosse una religione” gli dissi io. “Bè, uno ha bisogno di credere in qualcosa” fece lui.
Questa conversazione mi è tornata in mente nei giorni scorsi leggendo della conferenza ospitata dalla Francia per discutere con urgenza sulla necessità di procedere più speditamente verso la soluzione dei due stati per risolvere il conflitto tra Israele e palestinesi. Ma la soluzione dei due stati è ancora fattibile? — mi ha chiesto un amico.
La sua domanda mi ha fatto pensare. Per trovare una soluzione, in effetti, ci vuole un compromesso. In politica, con difficoltà, si può sperare di arrivare a un accordo, un compromesso. Ma qui non si tratta di una questione politica, ma di fede, di una posizione esistenziale-religiosa e perciò, mentre forse si può arrivare a una tregua provvisoria, fare un compresso non è possibile.
Ricordo bene il giorno in cui arrivai in Terra Santa per lavorare a Betlemme, nella locale università cattolica. Passando per il muro costruito da Israele, vidi un centinaio di uomini arabi in ginocchio, le mani dietro la testa, coi fucili dei soldati israeliani puntati addosso e pensavo che una tale scena triste era forse una necessità dovuta al fatto che gli arabi, avendo perso le loro terre con l’arrivo degli ebrei europei dopo la seconda guerra mondiale, non riuscivano ad accettare un tale sviluppo storico. E che di conseguenza, per proteggersi, gli ebrei fossero costretti a prendere queste misure di polizia. Di conseguenza — così pensavo — bastava che prima o poi gli arabi arrivassero a capire la volontà degli ebrei di raggiungere un sensato compromesso; a quel punto la soluzione sarebbe stata finalmente a portata di mano.
Dieci anni dopo però non vedo più le cose in questo modo.
I miei anni di convivenza fra i palestinesi mi hanno fatto capire che mentre tanti palestinesi desiderano un compromesso e l’Autorità Palestinese, guidata da al Fatah, si è completamente votata al progetto di costituire uno stato palestinese, ci sono anche quei palestinesi, più o meno simpatizzanti di Hamas, che optano per due posizioni assai diverse da quella dell’Anp: o vedono che la soluzione è desiderabile in sé ma pensano che gli israeliani non sarebbero mai disposti ad accettarla, e dunque confidare in essa non è realistico; oppure non vedono come desiderabile in sé un tale compromesso e perciò, sostenuti anche da un’ideologia di matrice islamica, si mettono in testa, semplicemente, di resistere per le prossime generazioni finché arriverà — prima o poi — un momento di debolezza di Israele. Sarà quello il momento buono per approfittarne e sconfiggerlo.
Ormai però non vedo più in queste posizioni, divise fra speranza e resistenza implacabile, il fattore decisivo nel rispondere alla domanda del mio amico sulla fattibilità del “Two State Solution”. Il fattore decisivo lo vedo piuttosto dall’altra parte, la parte israeliana.
Il mio contatto con gli israeliani era più sporadico di quello che avevo con i palestinesi, ma ho potuto incontrare e parlare con tanti di loro e ho comunque avuto la possibilità di vedere le cose da vicino. Tanti mi dicevano di volere la soluzione dei due stati, ma al tempo stesso di votare per i partiti contrari a una tale soluzione. Com’era possibile?
Per caso stavo in Israele nel 1993, quando furono resi pubblici gli accordi di Madrid che diedero l’avvio al processo per la costituzione di due stati. Rimasi scioccato nel vedere la violenza feroce che campeggiava nei manifesti (molti dei quali erano in inglese) subito apparsi dalla parte degli ebrei contrari all’accordo. Perciò non fu sorpreso quando due anni dopo il primo ministro d’Israele protagonista degli accordi, Yitzhak Rabin, fu assassinato da un giovane ebreo colono della Cisgiordania. L’urto suscitato da questo avvenimento fu enorme e da allora, quasi senza pausa, gli israeliani eleggono governi che sono più o meno contro la soluzione e che sostengono gli insediamenti in Cisgiordania. Oggi i coloni ebrei nella Cisgiordania, a seconda dalle stime, contano fra le 400mila e le 500mila unità e il loro numero, appoggiati come sono dal governo, cresce di giorno in giorno. La loro presenza così massiccia rende l’ipotesi di uno stato palestinese sullo stesso territorio di fatto impraticabile.
Così arrivo al mio giudizio. Gli israeliani, con tanto coraggio, intelligenza e persistenza hanno creato in pochi generazioni una nazione che ha uno dei più potenti apparati militari al mondo, che gode di una fiorente economia anche in tempi di crisi globale, che sta alla vetta della scienza e della tecnologia e gode di una potenza mass mediatica invidiabile. Con tutto questo potere, toccherebbe a loro assumersi la più seria e grave responsabilità per una soluzione del conflitto. Ma questo non accade. A Gerusalemme ho avuto modo di vedere un gigantesco manifesto alto 20 piani che recitava: “C’è una soluzione: si chiama Israele”. Al suo interno, recava un mappa di tutta la Cisgiordania e Gaza, coperte di simboli ebraici.
Perché?