In questi giorni la Russia celebra la festa del suo più venerato patrono, san Sergio di Radonež, una sorta di san Benedetto russo che nel XIV secolo, attraverso il proprio carisma di santità, avviò uno straordinario processo di irradiazione monastica nelle sconfinate distese della Rus’, gettando nel contempo le basi della civiltà e riunificando un paese devastato da lotte intestine e incursioni nemiche. Con una particolarità, rispetto a san Benedetto: l’intuizione che ogni convivenza umana – religiosa ma anche civile – può reggersi nella misura in cui l’uomo ricomprende se stesso, il proprio volto, specchiandosi nel suo eterno modello, la Trinità.
“Contemplando la santa Trinità, vinciamo l’odiosa divisione di questo mondo”: questo motto di san Sergio rivoluzionò realmente la Rus’, il suo assetto politico e culturale oltre che religioso, e non a caso ha trovato fulgida espressione nell’icona della Trinità che tutti conosciamo, dipinta poco dopo la sua morte dal discepolo Andrej Rublev.
A distanza di secoli vediamo splendere la luce di san Sergio. Eppure i tempi di allora erano bui, spietati, non inferiori per orrore ai fatti a cui sempre più spesso assistiamo, ad esempio nell’aeroporto di Bruxelles o sul lungomare di Nizza. Le orde dei tartari impazzavano per città e campagne della Rus’ mietendo vittime nei modi più efferati e facendo prigionieri destinati a una vita d’inferno; e i governanti locali spesso non esitavano a stipulare cinicamente accordi e compromessi con gli invasori, ai danni del proprio paese, per ambizione, calcolo politico o avidità di denaro. Uno scenario non così distante da quello attuale, si direbbe.
Com’è nato, allora, il miracolo di rinnovamento che san Sergio seppe compiere, per i suoi confratelli e l’intero paese? A distanza di secoli, la tradizione assume spesso toni oleografici e un po’ meccanicisti, che non riescono a darci ragione di ciò che avvenne realmente: san Sergio oggi viene ufficialmente celebrato dalla Chiesa russa come il “riunificatore delle terre russe”, la cui benedizione avrebbe generato subitaneamente la conversione dei principi e feudatari russi, la riscossa contro il nemico e, infine, avrebbe assicurato la vittoria, perché “Dio è con noi”. In realtà, ciò che non riusciamo più a vedere in una simile riduzione della storia è il dramma personale che si gioca in ogni vita umana, la lotta tra apertura e resistenza a Dio, e la disponibilità a lasciar spazio all’iniziativa di Dio, reale autore del miracolo.
Nessuno pensa, oggi, che il vero miracolo operato da Dio in quell’epoca di divisioni e conflitti consistesse nell’aver suscitato in Sergio un’intuizione così profonda e viva dell’identità comunionale dell’uomo, a immagine della Trinità, da riuscire a travolgere qualunque “cattiveria dei tempi”, anziché esserne ricattato.
A questo proposito mi è tornato alla mente un film su questo periodo storico prodotto nel 2012 dalla Chiesa ortodossa russa, che si focalizza su un coetaneo e grande amico di san Sergio, il metropolita Aleksij (propose addirittura a Sergio di prendere il suo posto sulla cattedra di Mosca, alla sua morte). L’Orda di Andrej Proškin narra in termini tutt’altro che agiografici un altro episodio entrato nella leggenda: Aleksij viene invitato a Saraj-Batu, capitale dell’Orda tatara, per guarire dalla cecità la potente madre del gran khan, Tajdula, e il miracolo da lui compiuto segnerà la liberazione almeno temporanea di Mosca dal giogo tartaro.
Nella pellicola però non troviamo traccia dell’aura edificante che avvolge tradizionalmente l’episodio. Il prelato non ha altra scelta che seguire i tartari giunti a Mosca a prelevarlo con la minaccia di mettere la città a ferro e fuoco, e si avvia con dignitosa rassegnazione a una morte quasi certa, ben consapevole che i miracoli non si fanno su ordinazione. E, in effetti, i suoi sforzi per operare il prodigio richiesto allo “stregone di Mosca” (come lo chiamano dapprima con riverenza e poi con scherno i tartari), attraverso riti, preghiere e benedizioni, falliscono miseramente. Nessun miracolo, nessuna visibile catarsi dei tanti atti di ferocia e crudeltà gratuita cui aveva assistito impotente lungo il cammino: a nulla gli vale la sua dignità ecclesiastica, a nulla gli valgono gli “strumenti del mestiere”, perfino la croce che porta sul petto gli viene sottratta e profanata. Ma proprio nel momento in cui viene spogliato delle vesti sacre, umiliato e ridotto letteralmente a una larva umana (a chi gli chiede il nome, il metropolita-straccione risponderà: “non lo so…”), Aleksij si inoltra in un drammatico rapporto con Dio, in cui la sua anima come la sua persona sono messe a nudo. E a sua insaputa, proprio al culmine di questo rapporto di totale offerta e abbandono di sé, Tajdula guarisce, il miracolo avviene.
È merito suo, come ritengono i tartari, che alla fine gli rendono onore e lo rimandano in patria, duramente provato ma sano e salvo? Oppure è una singolare coincidenza? Da parte sua, Aleksij continuerà a ripetere: “Io non ho fatto niente”. Come san Sergio, il cui carisma prese inizio quando, secondo la tradizione, sussultò nel seno di sua madre mentre la liturgia celebrava la santa Trinità. Ma proprio in questa spoliazione è il segreto della fecondità: il santo, cioè l’uomo, non fa che riconoscere “Io sono Tu che mi fai”, e intorno fiorisce la vita.