C’è bisogno di una stupida bontà

Di fronte ai tragici eventi di questi giorni, la nostra speranza, dice ADRIANO DELL’ASTA, non può essere riposta solamente in attività di intelligence, di polizia e anche militari

In questa che è stata giustamente definita «l’estate del nichilismo» stanno diventando chiare alcune cose che avrebbero dovuto essere tali da molto. Tra queste c’è il fatto che il terrorismo fondamentalista, al di là dei realissimi problemi politici, di schieramento, di geopolitica e chi più ne ha più ne metta, ha una dimensione ben più profonda e radicale, che tocca la persona nel suo cuore ultimo. Orlando, Nizza, Monaco, Ansbach, Rouen (e l’elenco è ovviamente parziale ed erroneamente limitato al solo Occidente) ci stanno mostrando che in molti attentati o comunque in molte stragi che costellano questi giorni, l’Isis e l’islamismo fondamentalista c’entrano solo parzialmente o per nulla. Già da un po’ di tempo in realtà si era posto il problema se fossimo di fronte ad un islamismo che si era radicalizzato o a un radicalismo che si stava islamizzando. 

In questi giorni il problema si è fatto ineludibile di fronte al pullulare di quelli che sono stati chiamati «lupi solitari»; nelle loro azioni il problema del fondamentalismo religioso, quando esiste, è solo una copertura, un’etichetta sovrapposta quasi a giustificare, a nobilitare e a dare una dimensione apparentemente universale, a dei problemi ben più profondamente personali anche se non meno universali: dal disadattamento alla salute mentale, quello che viene alla luce è un panorama umano che urla un desiderio di senso e di felicità al quale chi compie certi atti non ha trovato risposta.

Non sto proponendo un astratto spiritualismo, non sto dicendo che per far fronte agli attentati e alle stragi di questi giorni non si debba ricorrere a misure di intelligence, di polizia e anche militari: anzi, sono assolutamente convinto che tutte queste misure vadano prese per la salvaguardia dell’incolumità delle persone e del loro diritto a una vita pacifica, ma il problema resta più profondo. La nostra speranza non può essere riposta esclusivamente in questo: anche se la vita più «insignificante» è un bene inestimabile, non possiamo crederci in pace se alla fine della giornata abbiamo sventato una decina di attentati e abbiamo avuto un morto in meno; queste vittorie potranno riempirci di una giusta soddisfazione e anche di gioia, ma il problema non è lì.

La speranza non è un conto di profitti e perdite in cui si è felici se alla fine si ha un bilancio positivo, se alla fine si tira un respiro di sollievo e si può dire che l’abbiamo scampata: è piuttosto il respiro che sostiene tutta la vita, in ogni suo momento; è l’attesa di un mondo in cui non si sopravvive, ma si vive una vita piena, in cui se non si hanno più nemici non è perché li abbiamo eliminati tutti, ma perché non c’è più nessuno che possa considerarci nemici e che noi possiamo considerare nemico. E anche qui non sto proponendo un’ingenua utopia.

Accanto alle stragi, in questi giorni è stato osservato il presentarsi di un altro fenomeno (lo si è visto a Nizza e poi anche a Monaco): di fronte al blocco dei mezzi di trasporto o altre difficoltà di questo tipo, molta gente ha aperto la porta delle proprie case per dare ospitalità a perfetti sconosciuti, violando le abitudini più consolidate, l’abitudine alla sicurezza personale, alla privacy e, persino, all’egoismo di chi non vuole “estranei in casa”.

Il fenomeno finirà probabilmente lì, da questi incontri improvvisati non nascerà nessuna amicizia e, anzi, molte di queste persone fuori dall’emergenza, torneranno a parlare dell’altro, del profugo, dei mille islamici di questa terra, come di un nemico contro il quale erigere muri, ma nelle ore, negli istanti immediatamente successivi alla tragedia, prima del nemico c’era qualcuno a cui aprire la porta e offrire protezione.

Nessuna utopia allora: solo una stupida, insensata, ma realissima bontà che cerca un nome e che ha bisogno di passare dal sentimento e dall’impulso del momento a prassi quotidiana. E, ancora una volta per non fare utopie, occorre una via per arrivare a questa quotidianità; qualcuno ha definito l’insorgere della nuova Europa, quella che seppe accogliere i barbari o, meglio, seppe trasformare le loro invasioni nella nascita di un nuovo mondo, come il tempo in cui «l’eroico divenne quotidiano e il quotidiano eroico». La strada è ancora una volta questa, con un cammino di educazione che è assolutamente personale, perché la speranza, la felicità, la gioia, per funzionare, devono essere mie, devono riguardare la mia vita.

E anche qui le tragedie di questi giorni possono essere trasformate in un passo positivo: come  un singolo si è mostrato portatore di un male assoluto, così i passi di un singolo, i miei passi, possono trasformarsi in una via di salvezza e di speranza per tutti.

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