Erano numeri di un azzurro indelebile: l’Inferno rubò al Cielo il colore che gli era proprio. Non più nomi propri, ma numeri incisi indelebili nelle carni, come sulla pelle di bestiame grasso portato a spasso per i campi: «Nulla è più nostro – scrive Primo Levi in Se questo è un uomo -. Ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli. Ci toglieranno anche il nome: se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di fare sì che qualcosa di noi, quali eravamo, rimanga».
Numerati, spogliati, creature nude, pecore da macello sotto il cielo arruffato di un lembo di Polonia: nessun uomo tristo potrà reggere la vista di una coscienza innocente. Auschwitz: il nome perfido, nome-non-più-nome, la terra dove l’uomo s’azzardò di ordinare il mondo uscendo dalle prospettive di Dio. È difficile per la lingua arrischiare parole di chiarimento, per la mente afferrarne il senso minimo, anche solo gettarle sulla carta. È materia di poeta, anche se dopo Auschwitz la poesia zoppica, vive uno stato d’affanno, è preda di Lucifero che le prova tutte per farla diventare prosa, non-più-poesia. Incapace di suscitare scompiglio.
Francesco è pastore secondo l’ordine di Mosè. I pastori migliori, d’allora in avanti, sono rimasti quelli che portano gli armenti sui bordi estremi dei terreni, quasi sul ciglio dei crepacci, al confine ultimo dei pascoli, laddove l’erba riserva cisterne di frescura. Al suo gregge – composto da milioni di giovani marchiati in fronte dal sorriso di Cristo – ha dato appuntamento in una terra di confine com’è la Polonia. Ciascuno parte da casa sua: a ognuno la sua Betlemme. L’approdo è Cracovia, incrocio unico di storie da batticuore, di affanni furibondi.
La strada è obbligatoria: si transiterà per Auschwitz, il campo di sterminio con il maggior numero di morti. Con il maggior numero di sopravvissuti, la vera ossessione del stirpe delle teste-rasate: li gassavano perché non smascherassero a nessuno ciò che avevano veduto, ciò a cui erano stati costretti. Lucifero è coda di paglia: i tedeschi non volevano che si spargessero notizie sull’accaduto. Francesco, da parte sua, reca nel cuore l’urgenza che il passato venga squadrato, in tutta la sua sfigurata discordanza: sarà mai possibile venire inchiodati a una croce e rimanere liberi? A Cracovia, attraversando Auschwitz: a Dio, senza scansare per nulla la storia. Senz’irridere il sangue versato, la carne gassata, i capelli strappati: la bellezza schernita. A Cracovia di domenica, ad Auschwitz di venerdì: sempre venerdì, sempre-notte, quando l’uomo volge le spalle a Dio.
Nessun accenno di poesia nell’andare pensoso di Francesco tra i crepacci da crepacuore di quel burrone indiavolato: non è dato combattere le battaglie di Dio con le armi di Satana. Schernito, il Rabbì «non gli rispose neanche una parola» (Mt 27,14). Oltre quel cancello – ch’è un muro eretto, un’annunciazione blasfema – solo silenzio: arcigno, lacrimoso, fin quasi fanciullesco. Rincasando dall’Armenia, col pensiero proteso ad Auschwitz, Francesco ha chiesto a Dio la grazia del pianto, del versar lacrime.
Al Papa degli appuntamenti-a-sorpresa di Dio, il gregge giovane non osa chiedere null’altro di quello che il Papa, a nome loro, inciderà nei loro occhi: nessuna risposta prefabbricata a quesiti destinati a rimanere insoluti. Solo l’umile attraversamento del Calvario – ch’è sempre una scalata anche in terre pianeggianti – fatto in compagnia: bocca cucita, cuori in allerta.
La Giornata Mondiale della Gioventù non è la stagione dei saldi: il Papa mostra d’esserne convinto assai, la flotta giovane d’essersi convinta appieno di lui. Di un uomo ch’è volto di un Dio-educatore che mai insabbierà la miserabilità della storia, ma, costringendo a varcare l’ingresso di quel campo, s’intestardisce nell’additare quella percentuale di bellezza che, scappata a Lucifero, divenne il suo vero dramma: il sorriso del Bene dentro la cafonaggine del Male. Senza il silenzio di Auschwitz, l’esultanza di Cracovia rischierebbe d’essere fraintesa.