La Gran Bretagna è frivola, la Spagna è responsabile: 17 milioni e mezzo di voti (51,9%) per lasciare l’Unione europea nel Regno Unito, solo 5 milioni (21,2%) a favore di Podemos alle elezioni dello scorso 26 giugno in Spagna. Il populismo di marca ispanica è ben al di sotto delle sue stesse aspettative, nonostante l’alleanza con Izquierda Unida. Il valore di essere in Europa è una delle poche evidenze politiche che restano ancora in vita in Spagna. La paura scatenata dal risultato del referendum della Brexit appena 48 ore prima ha probabilmente penalizzato la formazione viola, facilmente assimilabile al populismo antieuropeo.

Sarebbe tuttavia riduttivo pensare che Spanish is different. La maggioranza risicata del Pp e il non avvenuto sorpasso di Podemos sul Psoe non possono certo considerarsi una vittoria definitiva. Forse si può dire che è stata fermata l’emorragia, e non è una cosa di poco conto. Una legislatura, anche se è corta, può aiutare a correggere gli errori e le imprecisioni. Tuttavia i 700.000 voti presi in più dal Pp non sono risolutivi. Nemmeno il secondo posto del Psoe, partito alle prese con una crisi di identità che dura da troppo tempo, può essere motivo d’allegria. La sfida del populismo è ancora intatta: è senza dubbio politica, ma anche ed essenzialmente antropologica.

Non siamo diversi dal resto del mondo. Il fenomeno che ha molte facce (populismo, nazionalismo, fondamentalismo) ha anche una versione spagnola. Si esprime politicamente, ma le sue radici si trovano in quello spazio che tradizionalmente è detto religiosità. Anche in Occidente ci troviamo decisamente in una società post-secolare dove le domande di significato riappaiono con forza nella vita pubblica.

Gli strumenti che Olivier Roy propone per comprendere il fondamentalismo islamico potrebbero rivelarsi utili per capire che risposta può essere efficace dinanzi al nazionalismo o al populismo delle sinistre. Il politologo francese sostiene che le espressioni di nichilismo violento che si rifanno al Corano sono una conseguenza della globalizzazione. La mondializzazione erode, quando non distrugge, il processo circolare che ha sempre dominato i rapporti tra le questioni di significato (la religione) e la cultura. La religiosità, utilizzata ideologicamente, riappare con forza, ma separata dalla cultura che le è propria, superata dalla globalizzazione. I talebani, per esempio, distruggono la cultura tradizionale afgana. I neo-fondamentalisti islamici europei, privi di radici, buttano alle spalle secoli di tradizione musulmana. Lo stesso tipo di comportamento si ripete in tutti gli angoli del mondo: il nazionalismo indù si appropria e si nutre in qualche modo del lascito culturale dell’India per i suoi fini esclusivi; le presidenziali Usa hanno messo fine ai riferimenti storici… Scompare così quell’esercizio critico e sistematico del contenuto della religiosità che tutta la cultura esercita. Non c’è verifica razionale delle proposte di significato, spesso ridotte a sentimentalismo. Il processo è lo stesso in alcune forme di fondamentalismo cristiano.

Il modello interpretativo di Roy, con un’estrapolazione forse forzata e con tutte le eccezioni del caso, può aiutare a capire meglio il fenomeno nazionalista e populista. Quella che finora è stata la cultura europea, in concreto la cultura democratica, non fa più parte del panorama e dell’esperienza degli europei. Buona parte della generazione adulta britannica e di quella giovane spagnola non ha più una cultura di riferimento. Sono persone che non hanno strumenti nella loro esperienza che le consentano di sottoporre all’esame critico le proposte di significato che provano a risolvere sfide come l’arrivo dei rifugiati, la globalizzazione economica, la politica dell’austerità o semplicemente la presenza degli altri (l’altro che la pensa differentemente o l’immigrato). Senza circolarità tra religiosità e cultura, i nuovi idoli, che si possono chiamare nazione o rivoluzione, arrivano molto presto agli altari. 

Forse questo consente di capire perché tra la nuova generazione di spagnoli, quella tecnicamente meglio formata, vanno alla grande prodotti ideologici di bassa qualità, soluzioni miracolose che mancano di realismo, o discorsi di facile vittimismo che trasformano gli altri in nemici. Bisogna riconoscere che per i partiti è faticoso agganciare quest’onda, specialmente da quando il centrodestra e la socialdemocrazia si sono arresi alla tecnocrazia. E sarebbe un passo avanti importante che i leader politici intuissero la profondità educativa di questa appassionante e bella sfida. Sarebbe così più facile dare protagonismo a tutto quello che nella vita sociale, di fatto, ricostruisce un certo tessuto culturale, un sussurro di capacità critica.