Gli aiuti di Stato sono da giorni al centro del dibattito politico, economico, perfino diplomatico, in Italia e in Europa. Lo sono perché il governo italiano vuole ricorrere all’intervento pubblico diretto nel capitale delle banche pericolanti: cosa che invece è espressamente vietata dalla ri-regulation post crisi (“bail in”), che impone di far sopportare le perdite di dissesti bancari soprattutto ad azionisti e obbligazionisti, ed eventualmente in parte anche ai depositanti.
La narrazione culturale 2016 degli aiuti pubblici, anche quella relativa al rapporto tra settore bancario italiano e UE, rimane in ogni caso questa: l’intervento dello Stato in economia resta un illecito politico e soltanto in alcuni casi d’emergenza i tecnocrati apolidi di Bruxelles possono valutare se infrangere la regola e consentire l’aiuto pubblico.
Su questo sfondo, non appare paradossale che a invocare gli aiuti di Stato in Italia – contro le resistenze di Bruxelles e del governo tedesco – siano i commentatori liberisti: cioè gli economisti da sempre più ortodossi nell’affermare la capacità autonoma del mercato di autoregolare i propri boom e le proprie crisi, tenendo definitivamente lontani Stati e “politici”.
Il mercato infatti può incorrere in “incidenti di percorso” anche gravi e quando accade le politiche pubbliche per certi versi devono aiutare.
Non è quindi casuale neppure che per giustificare il ricorso all’intervento pubblico si faccia riferimento al piano Tarp utilizzato nel 2008 negli Usa. All’indomani del crack di Lehman Brothers, il Tesoro americano strappò al suo Congresso l’autorizzazione a comprare 750 miliardi di titoli tossici che soffocavano le grandi banche.
La mano pubblica, secondo i liberisti, bontà loro, può quindi intervenire.
Ma la cornice resta rigorosamente circoscritta all’emergenza e l’aiuto pubblico deve limitarsi a puntellare il mercato entro schemi rigidi dettati dal mercato stesso.
Nella supposta “normalità” agli Stati rimane proibito interferire nella libera concorrenza tra imprese: la “politica economica”, la “politica industriale”, sulla carta, sono state archiviate con la fine del secolo scorso.
Questione chiusa? Non proprio. L’ultimo numero dell’Economist – storica bibbia del liberismo economico con l’ambizione di essere liberalismo politico-culturale – si apre con un editoriale critico, anzi, autocritico, dopo l’esito di Brexit.
“Nell’ultimo quarto di secolo la maggioranza ha prosperato, ma moltissimi elettori si sono sentiti lasciati indietro. La loro rabbia – riconosce l’Economist – è giustificata. I sostenitori della globalizzazione, incluso questo giornale, devono riconoscere che i tecnocrati hanno fatto degli errori e le persone comuni ne hanno pagato il prezzo. L’adozione di una moneta europea imperfetta, uno schema tecnocratico per eccellenza, ha portato stagnazione e disoccupazione, e sta facendo a pezzi l’Europa”. Che si tratti dei crack del 2008 o di Brexit, parlare di “incidenti di percorso” da riparare con le culture tecniche esistenti sembra dunque pericolosamente riduttivo anche a un giornale fondato nella Londra imperiale, divenuta quasi due secoli dopo la piattaforma della finanza globalizzata, superamento di qualsiasi “Stato”, di qualsiasi “aiuto”, di qualsiasi “politica di sviluppo”.
Più originale ancora lo spunto-ricetta che l’Economist suggerisce per la vecchia Europa: “Più di tutto, c’è bisogno di un sistema educativo che funzioni per chiunque, indipendentemente dalla sua età o background sociale”. Perché i mercati – del lavoro, della manifattura, della finanza, delle culture, della rappresentanza politica – non ce l’hanno fatta a tenere assieme il paese che si considera capostipite delle civiltà liberali? Perché si è dato per scontato che un’economia potesse andare avanti per meccanismi, prescindendo dall’educazione, dalla creatività, dall’iniziativa, dalla preparazione delle persone che muovono il sistema.
E’ impossibile investire sul sistema educativo senza la partecipazione dello Stato che elimini gli ostacoli ai capaci e meritevoli privi di mezzi e dia massima opportunità ai migliori, per il bene di tutti.
E se lo Stato deve fare la sua parte in educazione, perché non dovrebbe intervenire nel welfare? O non dovrebbe sostenere le imprese che danno occupazione e sviluppo e sono magari start-up povere di capitali? O, ancora, non dovrebbe aiutare le imprese che sono state messe in difficoltà dalle speculazioni di un mercato fintamente libero che tutto vuole meno che il benessere collettivo?
Parlare di “investimenti sull’education” è un modo neppure troppo implicito per riconoscere che dall’aiuto pubblico, in fasi storiche decisive, non si può prescindere. E che è necessario capovolgere l’impostazione politico-culturale del “male necessario”, dell'”uso modico e controllato” per ovviare a “crisi passeggere”.
Sono proprio i parametri culturali di fondo a dover essere prima o poi rivisti. I problemi che ci urgono potrebbero essere guardati e risolti in modo diverso. Ad esempio, il Monte dei Paschi di Siena è un dissesto da pilotare con criteri tecnocratici e ragionieristici o è un laboratorio per ricostruire l’infrastruttura bancaria nel Sistema-paese, per rigenerare fiducia? L’Ilva è un carrozzone arrugginito da rottamare col minor danno per l’ambiente e le finanze pubbliche e private o è una città del Sud europeo che sente il diritto-dovere di rilanciarsi sul piano industriale? Corre qui – in Italia e in Europa – il crinale fra l’aiuto pubblico dei tecnocrati e l’aiuto pubblico di una politica industriale nuova e possibile. Non l’aiuto pubblico che avvalli il demerito, ma quello che stabilisca i diritti del merito. Tra stato e mercato, meglio uno sguardo sul bene dei cittadini, senza a-priori ideologici.