Ragazzi giovani, a volte giovanissimi, compaiono spesso in prima pagina come responsabili di atti terroristici, siano questi i delitti all’arma bianca come quello del 17enne afghano che a metà luglio accoltella i passeggeri all’interno di un treno regionale in Baviera o siano atti espliciti di sostegno all’assassinio, come la musulmana 16enne di Melun, vicino a Parigi, arrestata pochi giorni fa per avere diffuso appelli a commettere attentati in nome del califfato. Il coinvolgimento dei giovanissimi non costituisce in sé una novità. In effetti non è la prima volta che dei ragazzi, poco più che adolescenti, partecipano ad azioni criminose o le compiono essi stessi. Gli anni di piombo ci hanno lasciato in testimonianza biografie di giovani terroristi altrettanto inquietanti.  
Tuttavia ciò che qui colpisce è la distanza tra l’enormità del gesto compiuto e l’invisibilità del terreno che avrebbe dovuto innestarlo e farlo sviluppare. Questi terroristi sembrano agire in un contesto di sostanziale solitudine, nella scalata demenziale di un “assassinio fai da te”, tanto più assurdo quanto interamente costruito sulla scorta di una propria personale deriva.
Per diversi mesi il carattere paradossale costituito dall’assenza di una connessione con uno specifico terreno di coltura è rimasto in ombra. Si è infatti pensato unicamente ai casi di estremisti addestrati nei territori occupati dallo stato islamico, per i quali il rapporto con un terreno sociale e politico capace di rappresentare il mondo per il quale battersi appariva come del tutto evidente. Andare nei campi di formazione dell’Isis significava impattare con l’ideologia jihadista e, soprattutto, incontrare un movimento dal quale ricevere un’identità nuova ed un’appartenenza esplicita.  
Si è poi pensato all’influenza di mullah radicali conosciuti in qualche moschea o in carcere. In questo caso i giovani terroristi avrebbero potuto con facilità imbattersi nel messaggio di un testimone autorevole e rivestirsi di un’appartenenza nuova. Il mondo al quale ricollegarsi, in assenza degli addestramenti in Siria o altrove, poteva facilmente essere sostituito dalle rete di rapporti che si consolidano intorno a figure specifiche.
I recenti casi di attentati compiuti da giovani adolescenti sembrano invece essere privi tanto del primo tipo di relazione quanto del secondo. Al posto dell’addestramento presso i campi militari, al posto delle reti di appartenenza intorno all’uno o all’altro imam si insedia la rete informatica. Il terreno di coltura dal quale trarre motivazioni, rappresentazioni e parole d’ordine è infatti in gran parte rappresentato dai canali clandestini che corrono sulle reti di internet: un vero e proprio mondo parallelo ignoto a tutti, dove scorrono i messaggi più deliranti ed i video più inquietanti. Un tale universo comunicativo sembra sostituirsi a quello reale e rivelarsi altrettanto efficace.

Così un ulteriore tassello di quella connessione causale che avrebbe dovuto spiegare la logica dell’adesione al terrorismo jihadista sembra volatilizzarsi. Dopo aver registrato l’assoluta irrilevanza delle variabili di marginalità sociale o di povertà economica; dopo aver registrato in molti casi l’assenza di imam dediti alla propaganda terrorista, adesso a scomparire è il terreno della protesta sociale in quanto tale. Quel terreno al quale i giovani terroristi del passato ritenevano di trovare alimento, quindi legittimazione e consenso, appare adesso sostanzialmente volatilizzato. Al posto di questo si diffondono le reti informatiche, il mondo parallelo dei canali clandestini nel quale si diffondono inviti e proclami.
La deriva terroristica che attraversa non da oggi la società europea si è all’inizio nutrita di una serie di logiche forti provenienti da comunità in cerca di indipendenza. Terrorismi come quello irlandese, quello basco, quello algerino o quello palestinese (a tutt’oggi ancora operante), provenivano da asimmetrie sociali evidenti e consentivano ad ogni artigiano del terrore di rispecchiarsi in un terreno comunitario dal quale riscuotere non solo il consenso, ma dal quale attendersi anche assistenza e riparo.
Cause capaci di alimentare bombe e terrore sono state offerte anche dai radicalismi di tipo politico. L’obiettivo in questo caso non è costituito da un’autonomia da conquistare, ma da un ceto oppressore dal quale liberarsi. Anche in questo caso l’adepto del terrore si alimentava alla rappresentazione di un popolo che toccava concretamente e frequentava quotidianamente e che risiedeva tra la propria stessa gente.
Gli attuali “adolescenti radicalizzati” che appaiono oggi, capaci di accoltellare un passante o un anonimo viaggiatore, non sembrano potersi nutrire di relazioni altrettanto potenti. Di fatto l’unico canale dal quale traggono conferma è costituito solo dai network clandestini, dalle reti di contatti che si dispiegano su internet, nel privatissimo delle notti passate online in compagnia di fratelli nella fede, sconosciuti e anonimi.
Il gesto omicida, la radicale violenza della quale si rivelano capaci, non senza ampie concessioni all’efferatezza dello spettacolo immediatamente filmato, sono tanto più incomprensibili quanto più sviluppati a partire da un universo che si sviluppa in un mondo parallelo, al di fuori di qualsiasi verifica.
Resta da interrogarsi sul fatto che, in un universo privato nel quale ogni condizionamento sociale si è rivelato irrilevante, basti veramente poco per brandire un arma e uccidere uno sconosciuto inerme. In un mondo parallelo nel quale non il quartiere né il mestiere, non la comunità né l’imam ma solo un messaggio criptato incita alla rivolta, sembra essere proprio il soggetto in quanto tale, con il suo delirio, a rendersi responsabile di tanta misera ferocia.  Ed è su questo delirio del singolo, volutamente recluso nel suo universo privato, che vale la pena interrogarsi.