La minaccia del burkini. È il titolo dell’ultimo bizzarro film che i cugini francesi stanno girando in materia di immigrazione. Quattro sindaci di località balneari in pochi giorni hanno emanato ordinanze che proibiscono alle donne musulmane di indossare il costume integrale sulle spiagge. Tra questi comuni ce n’è uno che per decenni ha dettato legge in termini di gossip da spiaggia, vale a dire Cannes. Nel testo del divieto firmato dal sindaco David Lisnard si legge questo: “L’abbigliamento da spiaggia che manifesta ostentatamente la propria appartenenza religiosa, in un momento in cui la Francia e i luoghi di culto sono oggetto di attacchi terroristici, può portare al rischio di turbamento dell’ordine pubblico”. Il riferimento è ad una rissa scoppiata su una spiaggia in Corsica, dopo che alcuni ragazzi locali si ostinavano a voler fotografare una donna in costume integrale.
Ma la polemica si è alzata di livello con l’uscita del primo ministro francese Manuel Valls (socialista) che ha sostenuto la decisione dei sindaci affermando che il burkini è contrario ai principi di laicità su cui si fonda il paese. La Francia, si sa, aveva già proibito l’uso del burka, per ragioni anche di sicurezza (in quanto può impedire l’identificazione delle persone). Ma per quanto nel nome ci siano delle assonanze, il burkini è evidentemente cosa molto diversa. Tant’è vero che grandi marchi occidentali lo producono, a cominciare dalla più trendy al mondo, Arena, il cui logo abbiamo letto su tanti costumi dei campioni di Rio 2016.
Del resto il burkini ha anche una sua oggettiva eleganza. Non solo, è anche frutto di una tecnologia avanzata, perché essendo costume integrale che aderisce al corpo deve avvalersi di tessuti in grado di asciugarsi in tempi molto rapidi: cosa che del resto è dettagliatamente spiegata sui siti delle aziende che lo hanno in catalogo. Davvero non si capisce quale problema possa sollevare, se non in menti intaccate dal virus della xenofobia. Che le spiagge che hanno visto proprio 60 anni fa le donne sperimentare il bikini (il primo modello fu presentato il 5 luglio 1946) oggi si trovi a censurare un suo “spin off” (burkini nella testa della sua creatrice, una stilista australiana, è infatti contrazione di burka più bikini) è paradossale. Ieri quelle spiagge si vantavano di essere frontiere di libertà, oggi si rivelano invece retroguardia di quella stessa libertà, dal momento che viene violata la libertà di tante donne di stare su quelle stesse spiagge, vestendosi nel rispetto della propria fede religiosa.

Non a caso il comunicato firmato dal sindaco di Cannes fa fatica a fornire le ragioni di un simile divieto. E scrivendo che il problema sta nel fatto che chi porta il burkini “manifesta ostentatamente la propria appartenenza religiosa”, si spalancano interpretazioni possibili molto inquietanti. Solo in spiaggia è pericoloso manifestare la propria appartenenza? Perché non anche per le strade? E in base a cosa un domani questo stesso avvertimento non potrebbe essere allargato ad altre fedi, comprese quella cristiana? Insomma una motivazione che fa acqua da tutte le parti, in nome di un’idea di laicità giacobina e stupidamente unilaterale.
Evidentemente dietro questo divieto c’è soprattutto lo choc di un paese colpito dal terrorismo e che si rivela completamente disorientato davanti alla sfida del multiculturalismo. Un paese che ha tra la sua popolazione un 9 per cento di musulmani (oltre sei milioni) più o meno secolarizzati. E che invece di cercare strade di convivenza e di integrazione matura, davanti ad ogni crisi pensa che l’unica soluzione sia l’assimilazione ai propri stili di vita. Ma così rischia solo di allargare lo spazio dell’ostilità e del sospetto.