Si è ripetutamente parlato in quest’estate dell’io e della sua responsabilità, vuoi per la tragedia del terrorismo, vuoi per le risposte che a questa tragedia può dare il singolo, prima ancora delle grande organizzazioni nazionali o internazionali; su queste pagine Salvatore Abbruzzese è tornato a porre il problema della diversa risposta che l’io può dare di fronte a situazioni esterne del tutto simili, che producono però reazioni completamente diverse.
Mentre ripensavo a questa vicenda dell’io e dei diversi io che incontriamo e che a noi stessi capita di essere durante la nostra esistenza, continuava a venirmi alla mente un episodio della vita di Nikolaj Berdjaev, il grande filosofo russo che, dopo la rivoluzione del 1917, era stato costretto ad emigrare a Parigi; si noti bene: un emigrato, un profugo, uno di quei soggetti che oggi tanto ci inquietano e ci fanno paura con la loro diversità, mentre l’Europa di allora aveva saputo accoglierli, traendone, come sappiamo oggi, un’enorme ricchezza. Senza Berdjaev il personalismo francese non sarebbe mai stato quello che è stato; senza l’ecclesiologia di comunione elaborata dai teologi ortodossi russi emigrati il Concilio Vaticano II non sarebbe stato quello che è stato; e via dicendo. Ma torniamo all’episodio di cui si diceva.
Erano ormai passati diversi anni dall’arrivo di Berdjaev a Parigi e, dopo quella della rivoluzione, si stava avvicinando un’altra tragedia, nella sua vita come in quella di tutto il mondo: era la fine di maggio del 1940 (il 19 maggio, per essere esatti) e di lì a meno di un mese i nazisti sarebbero entrati nella capitale francese, nei cui pressi, appunto, il filosofo viveva. A casa sua si erano incontrati quella sera un gruppo di amici, tutti, come lui, dichiaratamente e profondamente antinazisti; tra questi c’erano grandi pensatori, scrittori, attivisti sociali. C’erano, tra gli altri, Il’ja Fundaminskij, ebreo, massone, ex socialista-rivoluzionario (uno dei partiti che si erano distinti per l’esercizio programmatico del terrorismo come strumento “normale” di lotta politica) e madre Maria Skobcova, anche lei ex rivoluzionaria, ormai convertita e diventata monaca ortodossa: tutti e due sarebbero poi finiti in un campo di concentramento nazista, il primo per le sue origini ebraiche, la seconda per l’aiuto che aveva cercato di dare agli ebrei perseguitati dai nazisti; e tutti e due vi sarebbero morti martiri (Fundaminskij, poco dopo l’arresto e già in un campo, aveva voluto essere battezzato prima della morte), per poi essere canonizzati nel 2004. Insomma era gente “tosta”, in qualche caso anche con un’esperienza di lotta e di clandestinità alle spalle; anche Berdjaev, del resto, prima di tornare alla Chiesa, era stato un rivoluzionario.
A un certo punto il tema della conversazione si sposta sul senso di quanto sta avvenendo e uno dei presenti, Konstantin Mocul’skij, confessa di provare una preoccupazione così profonda che non riesce più a fare niente; lui, che era uno dei grandi critici letterari dell’emigrazione russa, non riusciva più a scrivere “neanche una riga.
Solo giornali e informazioni, e niente altro!”. Al che Berdjaev ribatte: “io invece ho un’incredibile capacità di scrivere in qualsiasi condizione. Anche adesso sto scrivendo un libro, scrivo articoli, preparo conferenze. Il mio sistema nervoso è definitivamente sconvolto, o meglio, lo è la sua struttura esteriore, mentre all’interno c’è una sorta di nucleo che nulla riesce a toccare!”.
Il problema, allora come oggi, è cosa rendesse Berdjaev capace di rispondere in quel modo. Non era perché fosse più “tosto” degli altri, visto che il suo sistema nervoso era “definitivamente sconvolto”: e noi, appunto, sappiamo che, oltre a ire improvvise, si portava dietro un tic per lo meno imbarazzante (tirava fuori la lingua, come per fare le linguacce, e non riusciva a riprendere il controllo dei muscoli facciali per lunghi secondi); e non era nemmeno perché gli altri non fossero in grado di dare risposte diverse e anche più efficaci delle sue: madre Maria, quando si trattò di aiutare gli ebrei diede prova di un sangue freddo e di un senso dell’avventura degno della vecchia rivoluzionaria (arrivando a liberare dalla prigionia dei piccoli ebrei nascondendoli nei bidoni delle spazzature).
C’era qualcosa d’altro, che permetteva a Berdjaev di fare della propria casa un luogo di incontro, dove poter discutere delle cose essenziali e più intime senza preoccuparsi delle condizioni esterne e delle angosce personali e, tanto meno, delle diversità di opinione o di confessione o della capacità o meno di far fronte da soli a un mondo che sembra sovrastarci e il cui male sembra invincibile nelle sue dimensioni e nella sua intensità. Chi spiega bene in che cosa consistesse questo qualcosa d’altro è la moglie di Berdjaev; per inciso e a proposito delle differenze di confessione, lei era cattolica, mentre lui era ortodosso e non aveva mai voluto lasciare la Chiesa di Mosca: “sono tornato alla Chiesa quando tutti dicevano che era la Chiesa dello zar, non vedo perché dovrei andarmene adesso quando tutti dicono che è diventata la Chiesa dei Soviet”; evidentemente cercava qualcosa d’altro rispetto alla politica o a una qualsiasi forma semplicemente organizzativa o dottrinale. Dice dunque la moglie nei suoi diari, per spiegare da cosa dipendesse questa sorprendente solidità del marito e, anche, questa fedeltà non meno sorprendente in uno che continuava a protestare contro ogni violazione della libertà (anche commessa dalla sua Chiesa): “tu non sei mai solo Nikolaj, tu sei con Cristo”.
Solidità e fedeltà non dipendevano da lui, dal suo coraggio, dalle sue capacità intellettuali o dalla forza della sua psiche; e tanto meno dipendevano da una struttura; semplicemente non dipendevano da nulla che fosse suo, se non la risposta che dava a quella compagnia, a quel “nucleo che nulla riesce a toccare” e nel quale stava la sorgente del suo io. Come di quello di ciascuno di noi.