La mattina del terremoto mi ero alzato alle sette e mezza per dir messa alle otto sulla terrazza di un albergo a Cesenatico. Quando ho attraversato il salotto ho visto tutti gli ospiti in piedi davanti al televisore che ascoltavano le notizie della devastazione provocata dalle tremende scosse accadute nella notte. Sui volti preoccupazione, tristezza e sgomento.
Nella mia omelia ho parlato delle certezze che l’apostolo Natanaele acquistò nel suo incontro col Signore, certezze che ressero davanti a contraddizioni terribili di ripudio, ostilità, minaccia e perdite, fino al suo martirio. Ho spiegato come la vita non viene retta adeguatamente da quello che possediamo, neanche dalla salute (non parliamo dei soldi). Tutto questo è troppo insicuro, può esserci tolto da un momento all’altro. Ma soprattutto, ho detto che questa verità è così scomoda che siamo indotti a vivere come se così non fosse, come se la realtà non fosse questa. La vita fiorisce nella verità e nella libertà quando è retta da una promessa credibile, una promessa di vita che non viene persa in nessun caso, per qualsiasi ragione al mondo. Perché questo avvenga, occorre che essa ci venga offerta da uno che ha dato prova della sua affidabilità.
Ho pregato molto quel giorno e poi mi sono unito a un’iniziativa di preghiera per le anime delle vittime tolte a questa vita così improvvisamente, e forse anche senza esser pronte ad incontrare il Signore. Il giorno dopo, guardando le notizie in tv, sono stato molto colpito da una scritta in sovrimpressione, che diceva “Il disastro di Amatrice; di chi la colpa?”.
Ma chiedersi questo vuol dire che l’urto di un avvenimento così drammatico non provoca minimamente la domanda sul senso di una esistenza — la nostra — così fragile, su come trovare la possibilità di confidare ancora nella vita quando essa è esposta a una violenza così incontrollabile. Al contrario, la quantità di morte e di danni prodotti dal terremoto induce chi guida la conversazione sociale ad alimentare l’illusione che la vita può essere controllata dando la colpa a qualcuno, magari portandolo davanti alla sbarra. Come se attirando l’attenzione sugli “untori”, si desse alla gente la possibilità di sentirsi più sicuri, ragionando che una volta data una buona lezione a “chi ha la colpa” il mondo diventerebbe subito meno pericoloso e più vivibile.
Tutto questo mi riporta a un episodio dei miei primi anni di sacerdozio. Conoscevo una famiglia che stava vivendo il dramma della malattia, gravissima, del loro figlio più piccolo. La mamma era cattolica, il papà era un protestante convertito che aveva perso la fede.
Quando il bambino morì (aveva dieci anni) andai a far loro compagnia per qualche ora. Il padre era fuoribondo con la sorte, con il destino. Aveva subìto un’ingiustizia imperdonabile e il suo rancore era praticamente incontenibile. “Hai ragione — gli dissi a un certo punto — non c’è nessuno piano o progetto che noi potremmo supporre, anche solo per un attimo, a giustificazione di questo male. È un’ingiustizia che grida vendetta. Qualcuno deve pure pagare per questo. E questo Dio lo sa. Ha dato Suo figlio per questo, che ha versato il suo sangue sulla croce. Ha sacrificato il Suo tesoro per riconciliarti con Lui. Chiedi a Lui che il sacrificio di Cristo paghi il prezzo”.
Il padre lasciò la famiglia poco dopo. La mamma lasciò la Chiesa perché una sua amica protestante le disse che le preghiere dei cattolici non sono gradite a Dio e proprio per questo era morto il suo bambino. I figli più grandi, senza più un appoggio nella vita, fecero lo stesso.
Il fatto è che la vendetta non può darci alcun motivo di chiamarci famiglia, comunità, società. Alla fine solo una speranza credibile regge. A noi la responsabilità di vivere una comunione fondata su una promessa credibile, che testimoni al mondo che la speranza c’è e che la vittoria è già nostra.