Tra i tanti spunti che Luca Doninelli ci ha regalato in occasione del suo bellissimo intervento al Meeting di Rimini, c’è un brano di David Foster Wallace che davvero è difficile dimenticare. È un brano tratto da una lunga intervista che lo scrittore americano aveva rilasciato ad un amico durante la tournée di lancio del suo libro più importante, Infinite Jest. Alla domanda su cosa possa vincere quella “sorta di strana insoddisfazione, di vuoto al cuore del proprio essere” che prende ogni persona, Wallace risponde facendo un percorso tutto suo, che certo non può non sorprendere chiunque lo legga. Non ha la risposta pronta, tant’è che chiede al suo interlocutore di spegnere il registratore, per poterci pensare. Poi riprende la parola dicendo che la faccenda ha a che vedere con “l’amore per se stessi”.
Dice infatti: “…se pensi a quelle volte nella vita che hai trattato le persone con un amore e una correttezza straordinari, e te ne sei preso cura in maniera totalmente disinteressata, solo perché avevano valore come esseri umani… Ecco, la capacità di fare altrettanto con noi stessi. Di trattare noi stessi come tratteremmo un buon amico, un amico prezioso. O un nostro bambino che amiamo più della vita stessa. E penso che sia possibile arrivarci. Penso che in parte il compito che abbiamo sulla terra sia imparare a fare questo”. La tenerezza verso sé come compito della vita umana, ha sintetizzato giustamente Doninelli.
Davanti ad un’intuizione così semplice, così vera, così amica della vita, così aderente alla nostra affettività, è scattato, almeno personalmente, un senso di gratitudine. Una gratitudine che torna tante volte quando capita di aprire le pagine di Foster Wallace, sin da quella prima volta che mi accadde di leggerlo: era l’anteprima di un suo racconto del 2007, pubblicata da un quotidiano. Si intitolava Brava gente, ed era una delicatissima storia che aveva a tema la gravidanza di una giovane coppia, combattuta e alla fine accettata (“Non era un ipocrita, era solo spezzato e diviso come tutti gli uomini. Tempo dopo, si sarebbe convinto che era successo questo: che per un momento aveva visto se stesso e Sheri come li vedeva Gesù: due persone cieche ma che avanzavano a tentoni, desiderose di compiacere Dio nonostante la loro innata natura imperfetta”, è lo stupendo passaggio conclusivo che Wallace legge nel pensiero del suo protagonista).
C’è in Wallace, nel modo di procedere del suo pensiero e della sua scrittura, un qualcosa di assolutamente gratuito. Gratuito perché del tutto imprevisto, se pensiamo alla complessità di un personaggio che non solo è una grandissimo scrittore ma ha avuto una vita terribilmente tormentata e che alla fine è arrivato al suicidio.
Wallace è come un grande dono che è stato fatto al nostro tempo, uno di quei doni ancor più grandi perché nessuno neanche lontanamente lo aveva messo in conto. E di cui non si possono capire le più segrete ragioni (perché uno che approccia le cose della vita in modo così libero e così umano è arrivato a togliersi la sua di vita?).
In che senso è un dono? Lo è innanzitutto per quello suo sguardo sempre amico verso chi avrebbe letto le sue pagine. Perché il suo modo di scrivere e di pensare non è mai prevaricante. Non si impone mai, ma accompagna passo a passo il suo lettore. C’è nel suo modo di essere intellettuale una pazienza, una disponibilità verso l’altro — che poi siamo noi — assolutamente rara se non unica (disse: “Un’opera davvero grande nasce probabilmente da una volontà di svelarci, di aprirci a livello spirituale ed emotivo fino a rischiare di provare davvero qualcosa di forte. Significa essere pronti a morire, in un certo senso, pur di riuscire a toccare il cuore del lettore”).
Wallace non è mai categorico; da narratore entra nei processi mentali dei suoi personaggi, così sembra saper entrare con delicatezza nei nostri, perché non gli fa nessun problema mettersi alla nostra stessa altezza. Non lo vediamo mai arrivare dall’alto con la forza di ragionamenti complessi, ma lo scopriamo ogni volta mentre ci affianca con ragionamenti pazienti. Lui diceva che il compito della letteratura non è più quello di rendere familiare ciò che è strano, ma di “rendere strano ciò che è familiare”. Lui stesso è stato in un certo senso un compagno “strano”, non cercato, non previsto, non classificabile. Ma sorprendentemente familiare in ogni sua parola.