Abbiamo tutti negli occhi le stragi degli ultimi mesi e degli ultimi giorni; quante volte abbiamo visto i corpi distesi coperti da un lenzuolo, la paura dei sopravvissuti, la triste (e un po’ sentimentale) abitudine di andare sul luogo dei fatti a mettere fiori e lumini. E il cuore si appesantisce ogni volta di più, ma poi in fondo si abitua. Si erode la normale, istintiva speranza, e scema il gusto per la vita. Questo capita a noi che siamo solo spettatori, non possiamo neanche pallidamente immaginare cosa si sedimenti nel cuore e nella mente di chi il sangue lo vede ogni giorno dal vivo, da mesi e anni. E di chi prova su di sé l’indifferenza altrui. La guerra è atroce proprio perché, oltre a mietere vittime innocenti, incattivisce chi vi rimane coinvolto, abitua a livelli sempre più alti di disumanità. 

Mi ha colpito, alcuni giorni fa, il racconto del pastore protestante Sergej Kosjak, un uomo che nella guerra dimenticata d’Ucraina si è assunto il compito di soccorrere la popolazione civile presa in mezzo tra separatisti filo russi e ucraini che continuano quotidianamente a spararsi; sul suo blog racconta che l’indifferenza della gente alle morti quotidiane ha raggiunto livelli incredibili: “Mentre correvamo disperatamente con l’ambulanza a sirene spiegate cercando di salvare Vladislav Birjulkin, 19 anni, colpito alla testa da un proiettile vagante mentre si trovava nell’orto di casa, ci è toccato rallentare in tutti i centri abitati che attraversavamo perché nessuno ci dava strada. Gli autisti guidavano ben piantati nel mezzo, sordi alla nostra urgenza”. Così Vladislav è morto, e magari si sarebbe potuto salvare arrivando venti minuti prima.

L’amarezza che lasciano episodi come questo può demolire la più forte delle speranze, la più solida fede nell’uomo; e invece si verifica inaspettatamente qualcosa di opposto: più si mostra misera ed egoista la natura umana travolta dalla guerra, più ingigantisce l’esigenza di bene e di bellezza. Perché di questo soltanto si può vivere. È per questa paradossale reazione del cuore umano che là dove la guerra uccide e sfigura, sempre più persone, senza aver ricevuto un mandato da nessuno, si auto incaricano non solo di soccorrere con aiuti materiali, ma proprio di ricreare uno spazio per la gioia, la bellezza, la pura gratuità che sono necessari tanto quanto il pane. Soprattutto per i bambini.

Il pastore Kosjak, dopo la tragedia di Vladislav non si è fermato, non si è lasciato prostrare dal dolore e dall’incapacità di salvare quella vita, ma ha rilanciato mirando più in alto: non solo sopravvivere, ma vivere e ha portato 70 bambini in campeggio in Polonia, e ogni sera, scrive, va a letto senza sapere come farà l’indomani a mettere assieme il pranzo con la cena, però vede attorno a sé la gioia che rinasce. 

Altra gente, cattolici e ortodossi di Char’kov e di Kiev, si sono messi insieme spinti dal medesimo impulso, ed è nata l’Associazione “Figli della speranza”, che nel 2015 si è avventurata con pochi mezzi e poca esperienza a mandare in Italia a far vacanza 8 bambini delle zone di guerra. Quest’anno i bambini arrivati sono 48, il che significa che 48 famiglie italiane hanno aperto le porte per offrire affetto gratuito a ragazzini già molto provati dalla vita.

Gli effetti di questo metodo si rendono evidenti subito, anche se tutti sanno che è soprattutto una semina per il futuro. Sono capitate cose inimmaginabili, che azzerano radicalmente la logica dell’odio e del sospetto seminata dalla guerra tra gli stessi ucraini. Due adolescenti, uno orfano di un soldato ucraino, l’altro figlio di un combattente separatista si sono trovati a vivere ospiti nella stessa famiglia italiana, e sono diventati amici.

Un’esperienza che supera le storie del libro “Cuore” e che deve essere ricordata davanti alle stragi: la felicità e la misericordia sono una strada. Dio ci vuole felici, il problema è se noi sappiamo rispondere a questo invito, se sappiamo assumerci il peso delle responsabilità che ci vengono incontro, se siamo in grado di non lasciarci condizionare dal male e dalle nostre debolezze ed essere liberi.

Molti si chiedono, in Ucraina (ma la stessa domanda potrebbe porsela ciascuno di noi di fronte allo stillicidio degli attentati): “Ha un futuro il nostro Paese?”. E le risposte, esattamente come da noi, oscillano tra i due estremi; c’è chi dice: “ma sì, andrà tutto bene” e chi replica: “non ci risolleveremo mai”. Il pastore Kosjak rispondendo alla stessa domanda, è uscito da questa logica: “Oggi più che mai abbiamo un futuro se stiamo attaccati alla libertà”.